L’eremo di San Benedetto – Chiara Gelmetti

Per me che ho trascorso la mia formazione scolastica dalle Benedettine, questa giornata è doppiamente importante e la ricordo sempre con un misto di nostalgia e di novità per ciò che è in serbo…. Qui un piccolo racconto, mentre studiando le immagini e i loro significati, sono giunta con sopresa all’Eremo di Benedetto… Buona lettura!

Cominciò tutto con quelle immagini che andavano e venivano e non c’era verso di stabilizzarle. Arrivava il bidello, resettava il tutto, ma pretendere che tutto apparisse normale suvvia.. se mancava l’audio, a tratti compariva il video, se il video si vedeva, era in bianco e nero, se voce s’udiva i personaggi incespicavano nel 78 giri, insomma poche immagini e confuse.. lo spettatore implicito era disorientato.. Ma quello che davvero stava accadendo è che l’azzurro si stava scolorendo, sembrava sbiadire e a poco a poco morire.

Se ne accorse ancor prima di noi qualche daltonico, che avvezzo alla maggior attenzione alle forme che aderiscono al colore, capì che qualcosa stava cambiando e non per il meglio e in effetti ci rendemmo conto che anche tra le colonne del Filarete il cielo era come velato.

Qualcuno ricordava d’aver letto che molto tempo fa in un paese né lontano né vicino, altri prima di noi erano andati in cerca del celeste evanescente e questo fenomeno si manifestava allorquando l’umanità cadeva il letargia e tutto sembrava a poco a poco assumere lo stesso colore. Fu così che si decise la spedizione: ritrovare – e in fretta – l’azzurro intenso e fragile che fu all’origine.

Avevamo pochi indizi topografici: un’isola e un campanile di pietra e cotto a forma di fungo. Ma fummo fortunati, il prof. Lapo Piccionis, tra le tante sue, si ricordò di un’immagine che aderiva ai nostri indizi e che si trovava in un vecchio libro di fiabe che aveva letto ai suoi piccinis. Organizzammo tutto a puntino, il collegamento di alice questa volta funzionò, e con qualche ritardo sulla tabella di marcia ci dirigemmo con le migliori intenzioni verso quell’isola che c’è.

Trovammo l’isola e anche il campanile; il terzo indizio uscì stampato direttamente dal parchimetro: Sali al tempio di Cerere e prosegui per il bosco fino alla radura delle rondini… e più sotto scritto in caratteri molto piccoli: v’è sulla destra una fonte, accanto ad essa si erge un sapiente castagno, a questa fonte non accostatevi neppure, ma più avanti troverete la fredda acqua che scorre al lago… ma lì per lì nessuno, questo piccolo post scriptum, lo notò.

In cima in effetti si scorgeva un Santuario dedicato alla Beata Vergine del Soccorso (il nome ci parve rassicurante…), e bastava guardare intorno quegli ulivi, la segale e le vigne per capire che qui Demetra era stata prodiga e celebrata.

La strada era impervia come in tutti i pellegrinaggi e disseminata qui e là da ottagonali cappelle barocche, che emanavano vita silenziosamente. Statue in attesa di un nostro gesto, della nostra viva attenzione: tutto era sul punto di essere animato. Ma non avevamo tempo, dovevamo proseguire, mi parve d’udire flebile il coro di Ruggero, ma fu un istante e si placò:

Dall’orror di notte cieca,

chi ne reca colla vita

la smarrita libertà?

Io fui belva…

Io sasso…

Io fronda…

Io qui sciolto erravo in onda…

Chi ne ha resa umana voglia?

Chi ne spoglia

la già appresa ferità?

Eravamo alquanto provati, prima di addentrarci nel bosco, quando Alcira e la sua compagna, fingendosi troppo stanche, decisero di fermarsi al santuario, impegnate – come capimmo dall’epilogo dell’impresa – in un rito propiziatorio. Partimmo infatti in due compagini di dodici, anzi ancor meglio, quattro gruppi di sei (numero piùccheperfetto per noi filosofi) per adempiere al compito che ci eravamo proposti. Il bosco era invitante e fresco e noi pieni di speranza, dopo aver visto un’indicazione che nominava il santo della primavera.

Tra le pietre e il terriccio muovevamo i passi sempre un po’ più in alto, quando ci apparve in mezzo a cippi e strani piccoli altari in pietra una fonte ed avevamo sete, ma il prof. Piccionis, l’unico che avesse letto e capito il terzo indizio, disse: “Alt!”, non qui , ma più avanti potrete bere, alla radura di San Benedetto.

Proseguimmo finchè avvistammo da lontano un campanile in pietra e riacquistando le forze, ormai quasi stremati, accelerammo un poco fino alla radura e …meraviglia: lì era un azzurro e intenso e lieve che copriva i prati e ne bevemmo a sorsi, molto emozionati! E c’era la fonte – come s’era detto – e accanto ad essa l’eremo di Benedetto.

Mi accorsi dagli occhi di Curzio che l’avevamo catturato, negli occhi rimbalzante d’altri occhi, nei fiori tra le mani nelle mani, quell’azzurro ci pervase, vi rimase, ed il cielo, in gioioso pianto, sopra di noi alfine si distese. Ritornammo bagnati e silenziosi, pervasi da sacra nostalgia, lungo la strada sdrucciolosa e breve sotto i nostri incerti passi carichi di tenerezza.

Ci attendeva l’oste sbigottito in quella stranissima osteria vicina al santuario, piena di orologi con ore differenti e gatti che ti strizzavano gli occhi appesi ai muri.

Eravamo ancora eccitati: chi giocava a frisbee, chi voleva ballare una moresca, chi toglieva il fango dalle scarpe; solo Alcira e il gatto grigio sapevano dei perigli evitati, ma fecero finta di nulla: lo spirito si era vivificato.

E fu proprio dalla cappella della Pentecoste che s’udì un richiamo. Il suo gesto liberò il mio gesto, e da uno sguardo di medusa rovesciato quella donna contrasse la sua immagine ed uscì, lieve, danzante verso il lago in una notte serena di maggio.

Suono la squilla al rancio. Si fece un brindisi aspettando la polenta e ci accorgemmo della nostra pentecoste, quando da un tavolo vicino discutevan di Spinoza.. il nostro (tavolo) era ancora un po’ confuso, ma partendo un po’ melensi dall’antanaclasi pascaliana, risalimmo tra funghi e brasato anche all’esistenzialismo, dissertendo perfino sulla decostruzione. Fummo poi certi dell’intervento dello spirito quando fu chiaro a tutti l’equijoin.

Ritornando verso casa, l’ultima pattuglia dei terribili controllori di colore, ci fermò per rubarci la visione, ma era con noi la saggia Alcira che, con poche parole, confuse loro le menti e la nostra merbaka dorata, guidata dal nostro straordinario professore, raggiunse presto e bene alla scoccare della mezzanotte la città di Milano.

Ci addormentammo quella notte sognando tutti un po’ di blu.

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Ma chi era San Benedetto?

San Benedetto, fratello di santa Scolastica, nacque verso il 480 nella città umbra di Norcia. Il padre Eutropio, figlio di Giustiniano Probo della gens Anicia, era Console e Capitano Generale dei Romani nella regione di Norcia, mentre la madre era Abbondanza Claudia de’ Reguardati di Norcia. Quando ella morì, secondo la tradizione, i due fratelli furono affidati alla nutrice Cirilla. Alla gens appartenevano anche san Gregorio Magno e Severino Boezio. A 12 anni fu mandato con la sorella a Roma a compiere i suoi studi, ma, come racconta Gregorio Magno nel secondo libro dei Dialoghi, sconvolto dalla vita dissoluta della città «ritrasse il piede che aveva appena posto sulla soglia del mondo per non precipitare anche lui totalmente nell’immane precipizio. Disprezzò quindi gli studi letterari, abbandonò la casa e i beni paterni e volle far parte della vita monastica».

All’età di 17 anni, insieme con la sua nutrice Cirilla, si ritirò nella valle dell’Aniene presso Eufide (l’attuale Affile), dove, secondo la leggenda devozionale, avrebbe compiuto il primo miracolo, riparando un vaglio rotto dalla stessa nutrice. Lasciò poi la nutrice e si avviò verso la valle di Subiaco, presso gli antichi resti di una villa neroniana, nella quale le acque del fiume Aniene alimentavano tre laghi (la città sorgeva appunto sotto – “sub” – questi laghi). A Subiaco incontrò Romano, monaco di un vicino monastero retto da un abate di nome Adeodato, che, vestitolo degli abiti monastici, gli indicò una grotta impervia del Monte Taleo (attualmente contenuta all’interno del Monastero del Sacro Speco), dove Benedetto visse da eremita per circa tre anni, fino alla Pasqua dell’anno 500. Conclusa l’esperienza eremitica, accettò di fare da guida ad altri monaci in un ritiro cenobitico presso Vicovaro, ma, dopo che alcuni monaci tentarono di ucciderlo con una coppa di vino avvelenato, tornò a Subiaco. Qui rimase per quasi trent’anni, predicando la “Parola del Signore” e accogliendo discepoli sempre più numerosi, fino a creare una vasta comunità di tredici monasteri, ognuno con dodici monaci e un proprio abate, tutti sotto la sua guida spirituale. Negli anni tra il 525 ed il 529, a seguito di un altro tentativo di avvelenamento con un pane avvelenato, Benedetto decise di abbandonare Subiaco per salvare i propri monaci. Si diresse quindi verso Cassino dove, sopra un’altura, fondò il monastero di Montecassino, edificato sopra i resti di templi pagani e con oratori in onore di san Giovanni Battista (da sempre ritenuto un modello di pratica ascetica) e di san Martino di Tours, che era stato iniziatore in Gallia della vita monastica.

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