8 dicembre – l’Immacolata

Nel giorno dell’Immacolata e a conclusione delle celebrazioni dantesche, riporto questi due bellissimi testi dedicati alla Vergine che ci traghettano dal Dolce Stil novo all’Umanesimo, insieme al bellissimo canto Vergine Bella di Bartolomeo Tromboncino (1470-1535), eseguito dal Quoniam ensemble (live in Frankische sommer Festival, Nuernberg) e la nostra socia e soprano Laura Antonaz

E più sotto un canto celebrativo medievale, Santa Maria – strela do dia, qui eseguito con una certa allegrezza, spero contagiosa… e la nostra danza composta Stella Splendens, coreografia originale di Enrica Sabatini per “Dante a Gradara. agosto 2021.

Dante Alighieri – Divina Commedia – Paradiso -Canto XXXIII: La preghiera di san Bernardo alla Vergine

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d’etterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura
nobilitasti sì, che ‘l suo fattore
non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore,
per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.

Qui se’ a noi meridïana face
di caritate, e giuso, intra ‘ mortali,
se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali,
che qual vuol grazia e a te non ricorre,
sua disïanza vuol volar sanz’ ali.

La tua benignità non pur soccorre
a chi domanda, ma molte fïate
liberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,
in te magnificenza, in te s’aduna
quantunque in creatura è di bontate.

Or questi, che da l’infima lacuna
de l’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una,

supplica a te, per grazia, di virtute
tanto, che possa con li occhi levarsi
più alto verso l’ultima salute.

E io, che mai per mio veder non arsi
più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi
ti porgo, e priego che non sieno scarsi,

perché tu ogne nube li disleghi
di sua mortalità co’ prieghi tuoi,
sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi.

Ancor ti priego, regina, che puoi
ciò che tu vuoli, che conservi sani,
dopo tanto veder, li affetti suoi.

Francesco Petrarca – Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta, XIV secolo) CCCLXVI

Vergine bella, che di sol vestita,
coronata di stelle, al sommo Sole
piacesti sí, che ’n te Sua luce ascose,
amor mi spinge a dir di te parole:
ma non so ’ncominciar senza tu’ aita,
et di Colui ch’amando in te si pose.
Invoco lei che ben sempre rispose,
chi la chiamò con fede:
Vergine, s’a mercede
miseria extrema de l’humane cose
già mai ti volse, al mio prego t’inchina,
soccorri a la mia guerra,
bench’i’ sia terra, et tu del ciel regina.

Vergine saggia, et del bel numero una
15de le beate vergini prudenti,
anzi la prima, et con piú chiara lampa;
o saldo scudo de l’afflicte genti
contra colpi di Morte et di Fortuna,
sotto ’l qual si trïumpha, non pur scampa;
20o refrigerio al cieco ardor ch’avampa
qui fra i mortali sciocchi:
Vergine, que’ belli occhi
che vider tristi la spietata stampa
ne’ dolci membri del tuo caro figlio,
25volgi al mio dubbio stato,
che sconsigliato a te vèn per consiglio.

Vergine pura, d’ogni parte intera,
del tuo parto gentil figliola et madre,
ch’allumi questa vita, et l’altra adorni,
30per te il tuo figlio, et quel del sommo Padre,
o fenestra del ciel lucente altera,
venne a salvarne in su li extremi giorni;
et fra tutt’i terreni altri soggiorni
sola tu fosti electa,
35Vergine benedetta,
che ’l pianto d’Eva in allegrezza torni.
Fammi, ché puoi, de la Sua gratia degno,
senza fine o beata,
già coronata nel superno regno.

40Vergine santa d’ogni gratia piena,
che per vera et altissima humiltate
salisti al ciel onde miei preghi ascolti,
tu partoristi il fonte di pietate,
et di giustitia il sol, che rasserena
45il secol pien d’errori oscuri et folti;
tre dolci et cari nomi ài in te raccolti,
madre, figliuola et sposa:
Vergina glorïosa,

donna del Re che nostri lacci à sciolti
50et fatto ’l mondo libero et felice,
ne le cui sante piaghe
prego ch’appaghe il cor, vera beatrice.

Vergine sola al mondo senza exempio,
che ’l ciel di tue bellezze innamorasti,
55cui né prima fu simil né seconda,
santi penseri, atti pietosi et casti
al vero Dio sacrato et vivo tempio
fecero in tua verginità feconda.
Per te pò la mia vita esser ioconda,
60s’a’ tuoi preghi, o Maria,
Vergine dolce et pia,
ove ’l fallo abondò, la gratia abonda.
Con le ginocchia de la mente inchine,
prego che sia mia scorta,
65et la mia torta via drizzi a buon fine.

Vergine chiara et stabile in eterno,
di questo tempestoso mare stella,
d’ogni fedel nocchier fidata guida,
pon’ mente in che terribile procella
70i’ mi ritrovo sol, senza governo,
et ò già da vicin l’ultime strida.
Ma pur in te l’anima mia si fida,
peccatrice, i’ no ’l nego,
Vergine; ma ti prego
75che ’l tuo nemico del mio mal non rida:
ricorditi che fece il peccar nostro,
prender Dio per scamparne,
humana carne al tuo virginal chiostro.

Vergine, quante lagrime ò già sparte,
80quante lusinghe et quanti preghi indarno,
pur per mia pena et per mio grave danno!
Da poi ch’i’ nacqui in su la riva d’Arno,
cercando or questa et or quel’altra parte,
non è stata mia vita altro ch’affanno.
85Mortal bellezza, atti et parole m’ànno
tutta ingombrata l’alma.

Vergine sacra et alma,
non tardar, ch’i’ son forse a l’ultimo anno.
I dí miei piú correnti che saetta
90fra miserie et peccati
sonsen’ andati, et sol Morte n’aspetta.

Vergine, tale è terra, et posto à in doglia
lo mio cor, che vivendo in pianto il tenne
et de mille miei mali un non sapea:
95et per saperlo, pur quel che n’avenne
fôra avenuto, ch’ogni altra sua voglia
era a me morte, et a lei fama rea.
Or tu donna del ciel, tu nostra dea
(se dir lice, e convensi),
100Vergine d’alti sensi,
tu vedi il tutto; e quel che non potea
far altri, è nulla a la tua gran vertute,
por fine al mio dolore;
ch’a te honore, et a me fia salute.

105Vergine, in cui ò tutta mia speranza
che possi et vogli al gran bisogno aitarme,
non mi lasciare in su l’extremo passo.
Non guardar me, ma Chi degnò crearme;
no ’l mio valor, ma l’alta Sua sembianza,
110ch’è in me, ti mova a curar d’uom sí basso.
Medusa et l’error mio m’àn fatto un sasso
d’umor vano stillante:
Vergine, tu di sante
lagrime et pïe adempi ’l meo cor lasso,
115ch’almen l’ultimo pianto sia devoto,
senza terrestro limo,
come fu ’l primo non d’insania vòto.

Vergine humana, et nemica d’orgoglio,
del comune principio amor t’induca:
120miserere d’un cor contrito humile.
Che se poca mortal terra caduca
amar con sí mirabil fede soglio,
che devrò far di te, cosa gentile?
Se dal mio stato assai misero et vile
125per le tue man’ resurgo,
Vergine, i’ sacro et purgo
al tuo nome et penseri e ’ngegno et stile,
la lingua e ’l cor, le lagrime e i sospiri.
Scorgimi al miglior guado,
130et prendi in grado i cangiati desiri.

Il dí s’appressa, et non pòte esser lunge,
sí corre il tempo et vola,
Vergine unica et sola,
e ’l cor or coscïentia or morte punge.
135Raccomandami al tuo figliuol, verace
homo et verace Dio,
ch’accolga ’l mïo spirto ultimo in pace.


Sant’Ambrogio – 7 dicembre

Si presume che Sant’Ambrogio sia nato nel 330 d.C. circa nella Gallia belgica, precisamente a Treviri, da una famiglia romana di alto lignaggio. Alla morte improvvisa del padre, che era un illustre governatore delle Gallie, Ambrogio si trasferì a Roma insieme alla madre, alla sorella e al fratello, proseguendo i suoi studi di eloquenza e retorica e avviandosi a ricoprire incarichi pubblici. A Sirmio, nell’antica Jugoslavia, iniziò quella carriera statale che lo portò a diventare avvocato della Prefettura Africana, Illirica e Italiana. In poco tempo divenne una personalità illustre e rispettata, tanto che nel 370 fu nominato, dal prefetto Sesto Petronio Probo, Governatore delle province dell’Emilia e della Liguria: la sede del suo lavoro fu Milano e qui riuscì ad entrare nelle grazie dell’Imperatore Valentiniano I. Si rivelò ben presto un eccellente funzionario e un risoluto mediatore, esercitando il suo lavoro di magistrato con magnanimità ed equità e risolvendo i sempre più frequenti contrasti tra i cattolici e gli ariani. La morte nel 374 di Aussenzio, l’ariano vescovo di Milano, animò nuovamente le due fazioni e Ambrogio si prodigò per placare una probabile rivolta in vista dell’elezione del nuovo vescovo. Si narra che mentre l’uomo era in chiesa, si udì in lontananza la voce di un fanciullo che urlava “Ambrogio vescovo”, seguita da quella dell’intero popolo di Milano, desideroso di avere un cattolico come successore di Aussenzio. Ambrogio vide la volontà di Dio espressa attraverso i cittadini milanesi e dunque, seppur titubante, accettò l’incarico: fu dunque battezzato nel novembre del 373 ed eletto vescovo il 17 dicembre dello stesso anno. Ambrogio decise di vivere la sua vita all’insegna della sobrietà e della semplicità, prestando aiuto a tutti coloro che lo cercavano: cedette infatti ogni suo avere alla chiesa, riservando all’amata sorella, la monaca Marcellina, l’usufrutto dei beni.

La sua attività pastorale fu assai fervente e intensa e a dimostrazione di questo rimangono gli inni da lui composti, le elaborazioni dogmatiche le opere ascetiche e morali ma anche moltissimi commenti esegetici.
La sua opera portò a numerose conversioni e Ambrogio ebbe il coraggio di proibire l’ingresso in chiesa all’imperatore Teodosio, considerato responsabile del massacro di migliaia di civili in Tessalonica, fino a quando non avrebbe ammesso le proprie colpe e non si fosse pentito. La morte per Ambrogio sopraggiunse il 4 aprile del 397 e le sue spoglie sono oggi conservate nella Basilica milanese a lui dedicata.

Ma non tutti sanno che il futuro Santo Patrono di Milano, per festeggiare il quale si tiene il 7 dicembre la prima del Teatro la Scala dal 7 dicembre 1951, era un musicista e un autore di inni liturgici, che amava usare il canto per entusiasmare la masse dei fedeli. Nella Pasqua del 386 d.C. battezzò Sant’Agostino e la leggenda narra che in quell’occasione improvvisò un duetto con lui, intonando il canto solenne Te deum laudamus».

Oggi, 7 dicember 2021, alle ore 18 la bacchetta del direttore musicale del Teatro alla Scala di Milano, il maestroRiccardo Chailly darà il via alla nuova Stagione 2021/2022 che si inaugura con Macbeth di Giuseppe Verdi.
In scena Coro e Orchestra del Teatro alla Scala insieme ai solisti Luca Salsi (Macbeth), Anna Netrebko (Lady Macbeth), Ildar Abdrazakov (Banco), Francesco Meli (Macduff), Chiara Isotton (Dama di Lady Macbeth), Iván Ayón-Rivas (Malcolm), Andrea Pellegrini (Medico), Leonardo Galeazzi (Domestico), Guillermo Bussolini (Sicario), Costantino Finucci, Bianca Casertano e Rebecca Luoni (le tre apparizioni).La regia è firmata da Davide Livermore con le scene di GIO’ FORMA i costumi di Gianluca Falaschi, le luci di Antonio Castro e la coreografia di Daniel Ezralow Official. D-WOK è responsabile dei video.Scopri di più su #PrimaScala https://buff.ly/3bdpF3q

La diretta esclusiva di Macbeth viene trasmessa su Rai1 a partire dalle 17.45. Rai Cultura renderà disponibile lo spettacolo anche su RaiPlay dove potrà essere vista per i successivi 15 giorni in Italia.

https://www.open.online/2020/12/07/prima-teatro-la-scala-di-milano-storia-video/

Ma il nome Ambrogio o Ambrosio, per noi appassionati di musica e danza antica, non può non ricordare due grandi personaggi della musica e della danza rinascimentale:
Joan Ambrosio Danza e Guglielmo Ebreo da Pesaro – Giovanni Ambrosio.

Joan Ambrosio Dalza (Milano, seconda metà del XV secolo – 1508) è stato un compositore e liutista italiano. Sulla vita e l’attività di Dalza non si conosce nulla. Le poche sue composizioni che a tutt’oggi risultano sopravvissute sono parte della raccolta Intabulatura de Lauto. Libro quarto, pubblicata a Venezia nel 1508 dall’editore Ottaviano Petrucci. In detta raccolta, importante e preziosa fonte sulla musica rinascimentale italiana per liuto, si trovano varie frottole, ricercari e danze (pavane, pive, saltarelli, calate, etc.). Dalza scriveva le sue danze in forma di suite, usando l’ordine pavana-saltarello-piva.

Joan Ambrosio Dalza, Recercare per liuto

Qui sotto potete ascoltare il Recercare di Dalza eseguito al liuto dal maestro e socio Emilio Bezzi:

Su Guglielmo Ebreo da Pesaro – Giovanni Ambrosio potete trovate molto materiale su questo sito, alcune indicazioni qui sotto e a voi la scelta…:

http://www.danzeantiche.org/guglielmo-ebreo-da-pesaro-alessandro-pontremoli/

http://www.danzeantiche.org/libri-2/

http://www.danzeantiche.org/manoscritti-e-trattati-di-danza-ed-educazione/

Giornata mondiale contro la violenza di genere – 25 novembre 2021


“LA VOCE DELLE DONNE” – WKO-ADA con Fidapa BPW Italy sezione Pesaro e CPO Ordine Avvocati Pesaro, insieme contro la violenza di genere, Pesaro 26 novembre 2021

Saluti

Tommaso Ricciardi , Prefetto di Pesaro e Urbino

Michele Todisco, Questore di Pesaro

Matteo Ricci, Sindaco di Pesaro

Filippo Gasperi, Sindaco di Gradara

Brigitta Fabbrocile, Ordine degli Avvocati di Pesaro

Francesca Serretti Gattoni,   CPO Ordine degli Avvocati di Pesaro

Tavola rotonda Introduce e modera Loretta Manocchi, Tesoriere Fidapa Pesaro con la partecipazione di:

Cristina Tedeschini                Procuratore della Repubblica del Tribunale di Pesaro
Violenza domestica: dati e statistiche del lockdown

Paolo Ercolani                             Filosofo e Docente UNIURB
Contro le donne: la misoginia nel pensiero e nella legge dell’Occidente

Asmae Dachan                        Giornalista e scrittrice
Le donne nei contesti di guerra: Siria, Etiopia e Afghanistan

L’mmagine “Blu acrilico scritto” è stata gentilmente concessa dall’artista tolentina Maria Micozzi , sempre in prima linea per la denuncia della violenza contro le donne
http://www.mariamicozzi.it/2014/10/19/opere-recenti/

Performance Voci e Danza tra antico e contemporaneo
Presentazione e drammaturgia: Chiara Gelmetti
Omaggio alla Beata Michelina: Elena Bacchielli
Letture: Manuela Marini
Voce recitante: Francesca Di Modugno
Danza: Bruna Gondoni e Marco Bendoni
e WKO-ADA Danza storica e Movimenti Gurdjieff: Laura Bozzoli, Angelo De Lucia, Laura Gallotta, Chiara Gelmetti, Laura Grasso, Franca Mandanici, Stefania Zeppa.
Coreografie:
Danze medievali, ipotesi coreografiche di Letizia Dradi, Bruna Gondoni ed Enrica Sabatini
Dal balletto Francesca da Rimini, musica di Pëtr Il’ič Čajkovskij, coreografia e danza Bruna Gondoni, Marco Bendoni
Movimenti sacri di G.I. Gurdjieff, dalle danze rituali femminili dell’antico monastero di Sarmoung (Afghanistan?), ricostruzioni coreografiche a cura di Marco Bendoni
Costumi: Pina Giangreco e WKO-ADA

«Io sono la Vita integra, non separata dalle pietre, non recisa dai rami… Io sono la radice di tutto e ogni parola suona e rinasce con me… Io sono l’Amore: potentemente raggiungo tutte le altezze sopra la terra, e nelle profondità, lego e raccolgo tutte le cose insieme… Io sono la ragione che è nel vento della parola risuonante e attraverso la quale è generata ogni creatura. È la ragione a risplendere negli astri e le stelle sono le sue parole…» (Ildegarda di Bingen, Liber divinorum operum, Visio prima)

Le voci delle donne e le loro storie. Spesso inascoltate. A volte dimenticate. Eppure forti, chiare e resistenti. Capaci di riemergere, anche a distanza di secoli, come quelle delle mistiche, poetesse e scrittrici di epoca medievale.
Per sfuggire alla violenza, domestica e non, ai matrimoni indesiderati, spesso le donne sceglievano il convento (oltre ad esservi anche destinate), il monastero, la cenobia, la confraternita e da questo luogo conclusus, ad interagire col mondo, sorsero voci di altissimo livello. Altro rifugio, per queste donne, erano le arti e soprattutto la poesia, dove molte di queste voci, per secoli inascoltate, si levano e rivelano oggi più che mai attuali.

Beata Michelina Metelli Malatesta – compatrona di Pesaro
Nacque a Pesaro nel 1300. A dodici anni Michelina Metelli sposò uno dei Malatesta, signori di Pesaro. Nel 1320 rimase vedova e poco dopo perse l’unico figlio. Aiutata dalla beata Soriana superò la dolorosa prova e si fece terziaria francescana. Per amore di Cristo donò ai poveri tutte le sue ricchezze e si impegnò in una vita di austera penitenza e preghiera. Col beato Cecco fondò la confraternita della Santissima Annunziata per servire i poveri, assistere gli infermi e seppellire i morti. Si narra che più volte Cristo le parlò dalla Croce. In età matura andò pellegrina in Terra Santa per visitare i luoghi della vita e passione di Gesù. Morì il 19 giugno 1356. È venerata come compatrona della città e il suo corpo è custodito nel Santuario di Santa Maria delle Grazie di Pesaro.

TESTI delle LETTURE estratti da:


22 novembre Santa Cecilia

Santa Cecilia, martire del III secolo d.C. patrona di musicisti e cantanti, è protagonista della tavola dipinta da un seguace di Giotto di inizio Trecento, Assisa in trono, con la palma del martirio e il libro sacro, è circondata da 8 storie della sua vita.

Cecilia, nata da una nobile famiglia a Roma, sposò il nobile Valeriano. Si narra che il giorno delle nozze nella casa di Cecilia risuonassero organi e lieti canti ai quali la vergine, accompagnandosi, cantava nel suo cuore: “conserva o Signore immacolati il mio cuore e il mio corpo, affinché non resti confusa”. Da questo particolare è stato tratto il vanto di protettrice dei musicanti. Confidato allo sposo il suo voto, egli si convertì al cristianesimo e nella prima notte di nozze ricevette il battesimo per mano del pontefice Urbano I. Tornato nella propria casa, Valeriano vide Cecilia prostrata nella preghiera con un giovane: era l’angelo che da sempre vegliava su di lei. Insospettito, chiese una prova dell’effettiva natura angelica di quel giovinetto: questi, allora, fece apparire due corone di fiori e le pose sul capo dei due sposi. Ormai credente convinto, Valeriano pregò che anche il fratello Tiburzio ricevesse la stessa grazia e così fu.

Il giudice Almachio aveva proibito, tra le altre cose, di seppellire i cadaveri dei cristiani, ma i due fratelli convertiti alla fede si dedicavano alla sepoltura di tutti i poveri corpi che incontravano lungo la loro strada. Vennero così arrestati e dopo aver redento l’ufficiale Massimo che aveva il compito di condurli in carcere, sopportarono atroci torture piuttosto che rinnegare Dio e vennero poi decapitati. Cecilia pregò sulla tomba del marito, del cognato e di Massimo (tutti e tre santi venerati il 14 aprile)[1], anch’egli ucciso perché divenuto cristiano, ma poco dopo venne chiamata davanti al giudice Almachio che ne ordinò la morte per bruciatura, ma si narra che “la Santa invece di morire cantava lodi al Signore”. Convertita la pena per asfissia in morte per decapitazione, il carnefice vibrò i tre colpi legali (era il “contratto” dei boia per ogni uccisione) ma Cecilia non morì, restando agonizzante per tre giorni. Fu papa Urbano I, sua guida spirituale, a renderle la degna sepoltura nelle catacombe di San Callisto.

La Legenda Aurea narra che papa Urbano I, che aveva convertito il marito di lei Valeriano ed era stato testimone del martirio, «seppellì il corpo di Cecilia tra quelli dei vescovi e consacrò la sua casa trasformandola in una chiesa, così come gli aveva chiesto»

Il Paradiso – Dante 2021 – Terza Conversazione

Giovedì 7 ottobre alle ore 20:30 termineranno le Conversazioni sulla Divina Commedia a cura di Marina Gelmetti con la collaborazione di Margò Volo.
Nel frattempo inseriamo qui i testi riguardanti questa conversazione e il video Tracce di Paradiso trasmesso il 2 giugno scorso.
Parte del commento e della rectiazione dei Canti del Paradiso dantesco sarà inserito in quest’articolo del blog a breve, come già è stato fatto per la prima e la seconda conversazione che potrete ritrovare sempre su questo blog.

Nel frattempo potete scaricare i testi di questa Conversazione sul Paradiso e guardare il video qui sotto caricato. Buona lettura e buona visione!

Sulle tracce di Orfeo progetto WKO-ADA 2021

Orfeo (gr. ᾿Ορϕεύς, lat. Orpheus; etimologia discussa, forse da una radice comune al gr. ὀρϕανός e lat. orbus, con un significato di “solitudine”, “privazione”, che ricorre in nomi e termini aventi riferimento agli inferi)

Personaggio della mitologia greca, figlio di Eagro (Οἴαγρος, il “solitario agreste”), e di una delle Muse (Polinnia o Calliope), cantore che piega al suono della sua lira gli animali e tutta la natura. I due miti salienti legati alla sua figura sono quello della katàbasis (discesa agli inferi) che egli compie per riportare in vita la sposa morta, Euridice, e quello della morte avvenuta per sbranamento da parte delle mènadi. Entrambi i miti hanno varianti: secondo una versione Orfeo sarebbe riuscito a riportare Euridice dagli inferi, mentre secondo quella diventata classica, pur avendo persuaso con il suo canto le divinità infere, sarebbe fallito nell’impresa, per aver violato la condizione di non voltarsi indietro lungo il percorso verso la terra in cui doveva precedere la donna; quanto alla morte, essa viene attribuita anche al fulmine di Zeus.

Mentre questi due miti non sono esclusivamente suoi (sia discese negli inferi sia morti per sbranamento o per fulmine si riscontrano in miti di altri eroi), Orfeo appare coinvolto, probabilmente in modo secondario, anche in altri miti (per es., egli partecipa all’impresa argonautica). Originaria sembra invece la localizzazione del personaggio nella Tracia, centro di diffusione di movimenti religiosi a carattere mistico-orgiastico confluiti nel culto dionisiaco e, appunto, nel cosiddetto orfismo. Infatti, l’importanza della figura mitica di Orfeo non si fonda tanto sui racconti variamente modellati nella tradizione poetica, quanto sul fatto che egli era il prototipo mitico di coloro che aderivano al movimento religioso che oggi chiamiamo orfismo; egli ne sarebbe stato il fondatore e autore di vari scritti “teologici” che andavano sotto il suo nome. Sullo sfondo di quel poco che si conosce intorno a questo movimento, acquistano però un significato particolare anche i miti menzionati: la preoccupazione orfica per l’immortalità spiega, almeno in parte, la katàbasis di Orfeo, mentre lo sbranamento del fondatore trova un singolare riscontro nella versione orfica della morte di Dioniso Zagreo, fanciullo divino sbranato dai Titani (ma in origine, più probabilmente, dalle mènadi). Solo una più precisa conoscenza dell’orfismo, delle sue origini, della sua consistenza come movimento e del suo vero indirizzo, permetterebbe di valutare gli elementi del mito, distinguendo quelli più antichi da quelli più recenti, quelli d’origine sacra da quelli poetici. Così, per es., i rapporti di Orfeo con Apollo che figura anche come suo padre e che come dio della lira gli è vicino, appaiono (per es., nella versione eschilea del mito) in contrasto con il culto di Dioniso cui Orfeo si sarebbe opposto; mentre d’altra parte sia il mito di Orfeo sia l’orfismo presentano elementi indubbiamente dionisiaci. Non bisogna però dimenticare che Apollo e Dioniso nella realtà religiosa greca non erano in contrasto, e a Delfi erano venerati insieme; secondo una leggenda antica la testa di Orfeo ucciso, insieme con la lira, avrebbe raggiunto, trasportata dalle onde del mare, l’isola di Lesbo, dove la testa dava oracoli in un tempio di Dioniso, mentre la lira era conservata nel tempio di Apollo. Nel 4° sec. a. C., con le nuove tendenze razionalistiche, si cominciò a dissentire sulla personalità di Orfeo e a negare (con Aristotele) la sua esistenza.

Bassorilievo in marmo di epoca romana, copia di originale greco del 410 a.C., che rappresenta Ermes, Euridice e Orfeo. L’opera originale, probabilmente di Alcamene, è andata perduta. Questo bassorilievo, conservato presso il Museo archeologico di Napoli, è tra le testimonianze che attesterebbero l’esito negativo della catabasi di Orfeo già a partire dal V secolo a.C. Qui Orfeo voltatosi verso Euridice, le alza il velo, forse per verificare l’identità della donna e quindi la perde. Secondo l’opinione di Cristopher Riedweg sarebbe infatti evidente che Ermes a questo punto trattenga per un braccio la sposa di Orfeo, che volge quindi il piede destro per tornare indietro.

La letteratura ellenistica e l’arte figurativa trattarono il mito di Orfeo sempre più liberamente, e i Romani lo derivarono dagli alessandrini: si ricordino la descrizione nelle Metamorfosi di Ovidio e l’episodio finale del 4° libro delle Georgiche di Virgilio.

L’arte della tarda antichità ha prediletto il motivo di Orfeo che ammansisce le fiere (noto fin dal 1° sec., ma diffuso specialmente fra il 3° e il 6°), che fu adottato anche dall’arte cristiana, con varie implicazioni allegoriche (fra le quali quella del buon pastore). Nell’arte moderna il mito di Orfeo fu numerose volte soggetto di quadri e sculture. Tra i primi vanno ricordati alcuni chiaroscuri di Mantegna nella sala degli Sposi nel castello ducale di Mantova (con la punizione di Orfeo, tema che ricorre anche in taluni cassoni nuziali fiorentini), l’Orfeo di G. Bellini (collez. Widener, Filadelfia), i disegni di Leonardo per le scene della favola di Orfeo che doveva rappresentarsi a Mantova, diversi piatti di Casteldurante, di Urbino e di altri centri, la statua di P. Francavilla, e poi dipinti di D. Dosso, del Tintoretto, Rubens, Bruegel il giovane, N. Poussin, Corot, Delacroix, Spadini, i bozzetti di scena e il film di J. Cocteau, il film di M. Camus ecc.

Via via la rievocazione della storia di Orfeo ha assunto vari significati, da quello etico-pratico delle prime raffigurazioni del Rinascimento, all’espressione del dominio dell’arte sugli istinti animali, e, in direzione opposta, all’enunciazione della nullità della poesia di fronte all’avversione del destino, o della estraneità della poesia dal mondo.

Il mito di Orfeo, nelle letterature moderne, fu celebrato da A. Poliziano nella Favola di Orfeo (1480) – dalla quale è tratto il libretto (di A. Striggio) della favola in musica Orfeo (1607), di C. Monteverdi -, da Lope de Vega nella commedia El marido más firme (1625), da Calderón de la Barca nell’auto El divino Orfeo (1663). Nel sec. 20° il mito di Orfeo è stato più volte rielaborato da J. Cocteau, nel teatro (con la tragedia Orphée, 1927) come nel cinema (Orphée, 1950; Le testament d’Orphée, 1960).

Tra le opere musicali, oltre a quella di Monteverdi, vanno ricordate: La morte di Orfeo (1619) di S. Landi; Orfeo (1647) di L. Rossi; Orfeo e Euridice (1762, su versi di R. Calzabigi) di Chr. W. Gluck; L’anima del filosofo (Orfeo e Euridice) (1791 circa, ma rappresentato solo nel 1951 a Firenze) di F. J. Haydn; il poema sinfonico Orpheus (1854) di F. Liszt; l’opera comica Orphée aux Enfers (1858) di J. Offenbach; il mimodramma Orphée (1913; rappresentato 1926) di J. Roger-Ducasse; Orpheus und Eurydike (1926) di E. Křenek; il dramma musicale Orfeu da Conceição (1956) di V. de Moraes, da cui fu tratto il film Orfeu negro (1959) di M. Camus.

Grazie a Loris Falconi, Paola Cassella e Paola Lomi per le loro splendide conversazioni che ci hanno permesso di accostarci in modi diversi e interessanti alla figura di Orfeo.

Qui sotto il video del laboratorio sperimentale svoltosi sull’isola di Samotracia nella prima settimana di agosto 2021, a cura dei nostri cari coreografi e ballerini Bruna Gondoni e Marco Bendoni. lab che ha prodotto questa bella performance, amatoriale, intensa. Hanno partecipato al laboratorio anche il soprano Laura Antonaz e l’attrice Margò Volo che hanno contribuito ad arricchire professionalmente questo quasi-spettacolo.
Ringrazio inoltre Paola Lomi con Luigi Bessi e Carlota Marañon per la sempre preziosa e generosa collaborazione, Emilio Bezzi per la sua messa a disposizione della “Fantasia” di Francesco da Milano al liuto, Gaia Gottin per l’attento e curato reportage fotografico, insieme a tutti i partecipanti gentili per aver reso possibile questa esperienza in un’isola che anno dopo anno ci accoglie con così tanta bellezza ed energia. Buona visione!

Danzare il Medioevo…

Come, cosa? E’ possibile ricostruire una coreografia o meglio reinventarla?
Con il M° Enrica Sabatini, che è anche danzatrice, si sono affrontati questi temi. Dunque ipotesi coreografiche per danzare il Medioevo: questo ci è sembrato il corretto approccio per cimentarsi in questa disciplina di questo periodo storico, almeno per ora…
Ne è venuto fuori un lavoro d’équipe con il gruppo WKO-ADA Montefeltro, sotto la guida e supervisione di Enrica Sabatini che ha creato appositamente delle coreografie originali, lavorando sulle interpretazioni musicali del periodo medievale, traendo spunto dalle sue prassi esecutive e dalle fonti iconografiche e letterarie, nonché dalle vidas dei trovatori, salvo qualche fonte coreutica dei processionali e inni alla Vergine.
I primi trattati di danza appariranno, infatti, ai primi del Quattrocento con Domenico da Piacenza, maestro del famoso Guglielmo Ebreo da Pesaro, che nasce alla fine del Trecento e che dal tardo medioevo proporranno, con la visione umanistica, un nuovo modo di danzare. Di questo ci parlerà la prof.ssa Cecilia Nocilli il 24 agosto a Gradara prima dello spettacolo.
E insieme a Dante, Guinizzelli e Cavalcanti che ci hanno regalato le forme poetiche e musicali del sonetto, canzone e ballata e naturalmente con le danze citate dal Sommo nella Divina Commedia, ne è venuto fuori l’evento “Dante a Gradara” che propponiamo martedì 24 agosto 2021 alla Rocca di Gradara.
Qui i dettagli: http://www.danzeantiche.org/dante-a-gradara-17-e-24-agosto-2021/

Bestiario medievale


I BESTIARI MEDIEVALI – Griffin – detail of a miniature from the Rochester Bestiary, BL Royal 12 F xiii

Innanzitutto, per capire l’iconografia medievale riguardante gli animali, dobbiamo partire da un brano di Michel Pastoureau:

A differenza di quanto generalmente si creda, gli uomini del Medioevo sapevano osservare assai bene la fauna e la flora, ma non pensavano affatto che ciò avesse un rapporto con il sapere, né che potesse condurre alla verità. Quest’ultima non rientra nel campo della fisica, ma della metafisica: il reale è una cosa, il vero un’altra, diversa. Allo stesso modo, artisti e illustratori sarebbero stati perfettamente in grado di raffigurare gli animali in maniera realistica, eppure iniziarono a farlo solo al termine del Medioevo. Dal loro punto di vista, infatti, le rappresentazioni convenzionali – quelle che si vedono nei bestiari miniati – erano più importanti e veritiere di quelle naturalistiche. Per la cultura medievale, preciso non significa vero.

Per comprendere l’iconografia medievale, dunque, dobbiamo considerare il rapporto tra l’uomo di quel tempo e la natura. La realtà fisica della natura non era considerata dal punto di vista estetico o scientifico, ma veniva vista e pensata, compresa e assimilata in rapporto con la dimensione spirituale. Se già San Paolo, nelle sue epistole, aveva affermato che il mondo terreno è lo specchio della volontà divina, è Ugo di San Vittore che nel De tribus diebus (1123) afferma esplicitamente che “questo mondo sensibile è quasi un libro scritto dal dito di Dio”. La natura, dunque, è una sorta di testo cifrato, in cui ogni elemento è signum, cioè simbolo che allude ad “altro”, a verità spirituali e religiose, una sorta di Sacra Scrittura redatta in un linguaggio diverso dalle parole.
Continua la lettura al seguente link: https://www.milanoplatinum.com/i-bestiari-medievali.html


“Il Leopardo” dal bestiario duecentesco di Rochester

Un bestiario, o bestiarium, è un testo che descrive gli animali o bestie. Nel Medioevo si trattava di una particolare categoria di libri che raccoglievano brevi descrizioni di animali (reali e immaginari), accompagnate da spiegazioni moralizzanti e riferimenti tratti dalla Bibbia. Altre raccolte, simili per l’impostazione ma di diverso argomento, sono i lapidari (i quali mostravano le proprietà delle rocce e dei minerali) e gli erbari (spesso di carattere medico), che descrivevano le virtù delle piante. (spesso di carattere medico), che descrivevano le virtù delle piante.

L’origine remota di questi testi, che oggi hanno importanza più che altro storica, è da ricercarsi, per il mondo occidentale, in antichi testi come l’opera greca Il Fisiologo (cioè lo studioso della natura) che offriva l’interpretazione degli animali e delle loro caratteristiche in chiave simbolica e religiosa (quindi, per esempio, il leone, re degli animali, è associato a Cristo). Il testo fu tradotto anche in latino e nel corso della storia si è arricchito di dettagli ed immagini sviluppandosi nei bestiari veri e propri. Altre fonti sono invece da ricercare in autori latini tra cui Plinio il Vecchio, Solino, sant’Ambrogio. Benché normalmente incluse nel testo dei bestiari le sezioni sugli uccelli possono, in qualche caso, essere estrapolate e conservate in manoscritti i cui testi sono detti aviarii.

I bestiari si diffusero soprattutto tra Francia e Inghilterra nel XIII-XIV secolo anche se non mancano testimonianze posteriori tuttavia molto inferiori dal punto di vista della realizzazione artistica. Un aspetto molto importante per la miniatura medievale è la presenza di ricchi cicli di illustrazioni, sia per quanto riguarda gli animali (quadrupedi, pesci od uccelli), sia per quanto riguarda temi più direttamente attinenti alla religione (storia della creazione degli animali dal libro della Genesi).

Tra i bestiari decorati più importanti si segnalano: Bestiario di Aberdeen (MS 24), preparato in Inghilterra nel XIII secolo, conservato nella Biblioteca dell’Università di Aberdeen; MS Ashmole 1511, della Bodleian Library di Oxford (strettamente imparentato al precedente).
Un tipo particolare di bestiario di origine alto-medievale (VIII secolo) contenente animali esclusivamente fantastici o creature mostruose è il Liber monstrorum de diversis generibus (libro dei diversi generi di mostri). In questo caso manca la volontà di moralizzazione in favore del tentativo di stupire i lettori con mirabilia per lo più provenienti da autori latini classici. Non mancano tuttavia esposizioni su casi teratologici. Anche questo testo è stato accompagnato da disegni. Le stesse tre fiere (lonza, lupa, leone) che Dante Alighieri incontra nell’Inferno (Inferno – Canto primo) s’inseriscono in questa concezione culturale.

I bestiari sono inoltre le fonti per le rappresentazioni didattico-moraleggianti di animali nella scultura romanica e nella scultura gotica. Ad esempio nella lupa si vedeva la cupidigia, nel drago il peccato, nella sirena (ibrido donna-pesce) le tentazioni, nel centauro l’eresia, nella scimmia la lussuria, nel gatto la vanità, nel cane la fedeltà, nell’unicorno la purezza. L’ammonimento contenuto in questi bestiari è di rinunciare ai vizi e di perseguire le virtù.[

Dante – Purgatorio – II Conversazione

Si è tenuta il 2 giugno 2021 la seconda Conversazione del ciclo dedicato a Dante: “Oscurità e Luce, Grida e Canto, Movimento e Danza” nella Divina Commedia, a cura di Marina Gelmetti, voce recitante Margò Volo. Ringraziamo di cuore la prof.ssa Marina Gelmetti e l’attrice Margò Volo per questa preziosa opportunità.

Qui sotto i testi che sono stati in parte oggetto della Conversazione e che potete scaricare online e il video presentato alla fine della Conversazione.

Qui sotto potete scaricare l’audio della seconda Conversazione, suddiviso in tre parti: buon ascolto!



A PASSO di DANZA… per CARATE: sulle tracce di TRACCE di SOFIA FUOCO

Domenica 6 giugno l’Associazione Sentiero dei Sogni inaugura un nuovo filone delle sue Passeggiate Creative, dedicato alla danza e ai suoi grandi personaggi vissuti sul Lago di Como.
A PASSO DI DANZA… PER CARATE : SULLE TRACCE DI SOFIA FUOCO è dedicato alla grande ballerina dell’800, celebre anche per la sua attività caritativa.
ore 10.30 incontro sul sagrato del Santuario di S.Marta dove si trova l’ex mausoleo della famiglia Fuoco.
visita a S.Marta, discesa lungo il viale delle cappelline del Rosario, visita alla parrocchiale S.Maria Assunta di Carate e alla sacrestia, dove si trova la lapide dedicata alla ballerina.
Per finire ci si reca a Villa Fuoco, poco distante, con visione degli esterni.
Termine per le 12.30
Costo: 12 euro a persona
Ridotto 9,50 per:
minori di 14 anni (accompagnati da un adulto),
soci Sentiero dei Sogni.
Prenotazione obbligatoria cell. 320.3551711, mail gigliola.foglia64@gmail.com

Maria Brambilla nacque a Milano. Iniziò a studiare danza classica con Carlo Blasis nel 1837 e in seguito divenne una delle sue cosiddette Pleiadi. Nel 1839 all’età di nove anni fece il suo debutto sul palcoscenico al Teatro alla Scala. Il suo nome d’arte deriva dal cognome da nubile della madre e fu dettato dalla presenza di più “Maria Brambilla” nella scuola di danza.

Nel 1843, a soli 13 anni, fu nominata prima ballerina assoluta del teatro. Nello stesso anno, fu la prima a ballare Giselle a Milano. Nel 1846 ballò nel Pas de Quatre di Perrot alla Scala diretta da Filippo Taglioni.

In 1846, all’età di sedici anni, fu invitata dal Paris National Theatre per sostituire Carlotta Grisi. Il coreografo Joseph Mazilier stava per mettere in scena la nuova opera Betty con la Grisi ma la ballerina aveva già firmato un contratto con il Roman Apollo Theater. La stampa parigina iniziò a discutere la sorprendente tecnica e le pirouette della Fuoco prima ancora della sua prima performance alla Salle Le Peletier.

Impressionò il pubblico più per la sua solida tecnica classica che per la sua recitazione. Grazie al suo eccezionale lavoro sulle punte venne chiamata La Pointue a Parigi. Secondo Théophile Gautier «i suoi piedi volavano sul pavimento come frecce d’acciaio».

Fuoco fu solista al Paris Opera Ballet fino al 1850. Tra il 1847 e il 1848 si esibì a Londra. All’inizio degli anni cinquanta dell’Ottocento, fu ballerina principale del Teatro del Circo di Madrid. Lì rivaleggiò con Marie Guy-Stéphan, favorita del Marchese di Salamanca. Quando la Fuoco diventò la ballerina preferita del generale Narvaez, la rivalità scenica sfociò in scontro politico. I sostenitori del Marchese di Salamanca (e della Guy-Stéphan) dimostravano la propria opinione indossando all’occhiello garofani bianchi, mentre i sostenitori del governo (e della Fuoco) portavano garofani rossi, con le donne che sfoggiavano un’acconciatura à la Fuoco.

Nel 1852 danzava al Teatro Argentina di Roma. Per la fine degli anni cinquanta si ritirò dalle scene.

Sofia Fuoco, la divina di Angelo Emiliano

   Per Sofia Fuoco i faentini persero letteralmente la testa. La celebre ballerina venne in città due volte, nel 1853 e tre anni dopo, suscitando una sorta di pazzia collettiva tanto erano grandi l’ammirazione e l’entusiasmo. Dietro quel nome d’arte si celava la milanese Maria Brambilla. Era nata nel 1830 e i suoi progressi nella danza ebbero del prodigioso. Allieva del napoletano Carlo Blasis, considerato fra i massimi teorici del balletto, a nove anni già aveva un posto in palcoscenico e a 13 esordì come prima ballerina nientemeno che alla Scala. Pur non gradendo la rappresentazione – il Don Fabio di Serafini – l’autorevole critico della «Gazzetta privilegiata di Milano» le riservò un giudizio lusinghiero, giustificando gli spettatori rimasti in sala «per vedere quel demonietto trasfigurato in paggio, quella cara Fuoco che rende dilettevole la scena co’ suoi vezzi e la sua vispa giocondità». Pochi mesi dopo, sempre nel 1843, Sofia Fuoco entrò a far parte del complesso che riuniva gli allievi di maggior talento di Blasis, le Pleiadi.

L’anno seguente danzò con le artiste più rinomate del tempo e nel luglio 1846, a soli 16 anni, riscosse un successo enorme di pubblico e di critica all’Opera di Parigi. Nel 1847 si esibì al Covent Garden di Londra e nel 1848 a Madrid dove, oltre a farsi ammirare per le straordinarie doti artistiche, si fece amare per la generosa donazione alla Casa dei trovatelli (farà la stessa cosa a Faenza, destinando l’intero suo compenso della serata del 3 luglio 1856 agli «orfani del Choléra».
Poi una marcia trionfale attraverso i maggiori e più celebrati teatri d’Europa, suscitando ovunque «acclamazioni fin quasi al fanatismo».
Le trattative per averla a Faenza in occasione del grandi festeggiamenti di San Pietro del 1853 furono avviati per tempo fra il gonfaloniere Giuseppe Tampieri e l’Agenzia teatrale del bolognese Ercole Tinti. Gli accordi prevedevano che, oltre a due opere liriche, il cartellone comprendesse appunto il Divertissement danzante della Fuoco. La celebre artista sarebbe arrivata in città verso la fine di giugno assieme al primo ballerino Dario Fissi e a otto coppie di «grandi ballerini di mezzo carattere». Poi le cose si complicarono, da Faenza si ebbe l’impressione che l’amministratore dell’impresario intendesse fare il furbo e si rese necessario ridiscutere i termini dell’accordo. Fu lo stesso Tinti a garantire magnificando i successi della sua primadonna. «Ogni serata della Fuoco – scrisse il 22 maggio a Tampieri – fu una vera solennità. In primo luogo 2.500 franchi di incasso, corone, fiori, biografia, bouquet, regali e dopo il teatro la Banda con una magnifica serenata». II costo degli spettacoli era però salatissimo: duemila scudi romani «metallici», ovvero in oro o argento.II compenso previsto per Sofia Fuoco era di 768 scudi per otto rappresentazioni, oltre a meta del ricavato di una beneficiata (una serata in suo onore) e il rimborso delle spese di viaggio e di alloggio. Per farsi un’idea di cosa volesse dire, basti sapere che il compenso del primo ballerino, il Fissi, era previsto in 85 scudi e rotti e quello del coreografo, coadiuvato dal figlio, in 112. 

Ma nessuno in città ebbe da ridire sulla spesa: la Fuoco portò in scena Gisella e fu un trionfo senza precedenti. Ci fu chi commentò: «Le gambe, il corpo, le movenze della bellissima ballerina portarono una vera rivoluzione nel sangue e nel cuore dei giovani e dei meno giovani».
E altri: «Sofia Fuoco, la danzatrice dalla grazia affascinante, scosse il pubblico da quel letargo in cui era caduto e tanto lo entusiasmò che non si possono descrivere le dimostrazioni continue e crescenti. Pareva che tutti impazzissero ad ogni mossa. L’entusiasmo toccò il delirio». Tre anni dopo, come s’e detto, la Fuoco tornò. A prendere i necessari accordi per conto del Comune fu il conte Scipione Pasolini Zanelli. Anche in quest’ occasione qualcosa non andò per il verso giusto, tanto che l’impresario Antonio Pieraccini pretese di trattare con l’amministratore della sagra di San Pietro, Giuseppe Vespignani. Questa volta i compensi – perlomeno quelli inizialmente pattuiti – erano meno sproporzionati: 480 scudi per Sofia Fuoco e 300 per Dario Fissi ancora nel ruolo di primo ballerino. Non conosciamo però il numero delle rappresentazioni. Le opere in programma erano gli autentici cavalli di battaglia del’ etoile: La figlia del bandito di Perrot, Caterina e Le nozze di Ninetta con Nane.
Puntualmente si ripeterono le scene di esaltazione collettiva. «I faentini – ha scritto Piero Zama in “Addio vecchia Faenza” – parevano diventati matti, tutte le faentine erano diventate gelose». Persino uomini noti per i severi studi letterari e linguistici investirono il loro sapere in rime e sonetti sognanti dedicati alla bellezza e alla grazia dell’insuperabile artista.
Alla Fuoco era stata riservata un’elegante stanza nell’antico palazzo in angolo fra via Torricelli e via Manfredi. Qui ella si ritirava dopo gli spettacoli, dati ovviamente in Teatro (che ancora non aveva preso il nome del tenore Arcangelo Masini).

Sui muri della città, in tutte le strade, scritte osannanti consegnavano ai posteri il trasporto senza freni di giovanotti ed uomini maturi. Ci fu chi scrisse «Sofia più che mortal, fuoco divino!», ma quelli erano tempi in cui mischiare i santi coi fanti non era consentito. Quel «divino» ben presto scomparve sotto le pennellate della censura.

    Lasciamo ancora che sia Piero Zama a raccontare come andarono le cose la notte del 6 luglio 1856. «Dopo una recita che aveva segnato un particolare trionfo, Sofia Fuoco fu accompagnata dal popolo fino alla sua dimora, fra applausi scroscianti, al chiarore di fiaccole. E la carrozza era tirata e sospinta da innumerevoli adoratori. Dal piccolo balcone, chiamata, applaudita, Sofia si affacciò più volte, ringraziando e reverendo.
Ma giù gli ammiratori non si stancavano mai di rivolgere dichiarazioni, di gridare gli evviva, di cantare, di suonare le parole e le musiche che soltanto l’amore pazzo è capace di fabbricare, soprattutto nelle ore notturne. Impazientita di non poter dormire, Sofia Fuoco discese ancora una volta dal letto: cercò per un momento, trovò quello che, non ancora usato, cercava ed aperta la finestra lo tiro sugli ammiratori: i quali, lungi dal prendere spavento o dall’aversene a male, si gettarono con furia sui cocci, fieri di possedere almeno uno di quegli intimi amuleti. Ci fu chi lo tenne in serbo fino all’ora della morte».