Musica rinascimentale a San Carlo al Lazzaretto

Ensemble

CHIESA di SAN CARLO al LAZZARETTO

La chiesa di S. Carlo al Lazzaretto ha, nella storia architettonica di Milano, un’importanza rilevante, quale le sue modeste dimensioni e l’attuale collocazione non consentono oggi di apprezzare appieno.

Dapprima centro focale del Lazzaretto quattrocentesco, realizzata – per volontà di S. Carlo – in sostituzione di una modesta chiesetta, quindi prototipo di altre cappelle poste al centro di lazzaretti (Verona, Ancona), infine chiesa sussidiaria facente parte della Parrocchia di S. Francesca Romana quando il Lazzaretto viene a perdere le sue funzioni e viene demolito.

Il Lazzaretto

Il Lazzaretto è stato da sempre una struttura forte dalla parte esterna della città: 150 mila metri quadrati di territorio, associati per molti anni alla funzione di ospedale degli appestati, ma anche forma architettonica emblematica, accostata alla struttura muraria cinquecentesca, che ne costituisce l’elemento di passaggio con la campagna circostante. L’esigenza principale di questa struttura – utilizzata sin dal medioevo – era che fosse ubicata alla maggior distanza possibile dalla città, richiedendosi per gli appestati una segregazione completa e assoluta.

Il primo Lazzaretto di Milano fu costruito tra il 1447 e il 1450 dalla Repubblica Ambrosiana; ma questa struttura, benché collegata a Milano da un canale navigabile, si rivelò troppo lontana dal centro cittadino. Fu solo nel 1486, l’anno successivo ad una pestilenza che causò 135 mila morti, che – dopo un’ipotesi di collocazione a Crescenzago – si stabilì, grazie a un lascito di Galeotto Bevilacqua, di edificare il nuovo lazzaretto in località S. Gregorio (ubicata vicino a Lambrate). Ma anche questa località fu ritenuta troppo lontana dalla città e quindi si optò per un terreno appartenente alla Abbazia S. Dionigi (una delle prime chiese di Milano, ora distrutta) non lontano dal canale Redefossi, e si decise che la struttura avrebbe dovuto chiamarsi “S. Gregorio”.

La data della posa della prima pietra è il 1488. L’incarico di progettazione è affidato dall’Ospedale Maggiore all’Architetto Lazzaro Palazzi, seguace del Bramante (al quale per qualche tempo questa architettura fu attribuita) e a cui si debbono diverse opere di architettura e Milano. La costruzione del Lazzaretto continua fino al 1508 ma non sarà mai del tutto completata: concepita come una struttura chiusa all’esterno e aperta con un porticato continuo verso l’interno, il lato ovest (posto lungo la attuale via Lazzaretto) rimarrà privo del porticato.

La forma quadrata scelta dall’architetto risponde alla suddivisione delle quattro situazioni generate dalla peste: sospetto, malattia, convalescenza e servizi. Al centro del quadrilatero era prevista una chiesa per gli uffici religiosi che avrebbero dovuto poter essere visti anche da lontano, senza che i malati dovessero muoversi dalle abitazioni. L’ingresso principale avveniva dal lato sud (attuale via Vittorio Veneto); altri ingressi erano posti sugli altri lati. Tutto l’edificio era circondato da un canale d’acqua corrente (proveniente dal naviglio Martesana) che aveva la funzione di isolare il Lazzaretto dal resto della città, ma nel quale confluivano anche i condotti fognari provenienti dalle singole celle. La struttura era imponente: 288 camere, ciascuna a pianta quadrata, coperta da una volta a botte, dotate di un camino e di una latrina. Tutte le funzioni di isolamento richieste dalla malattia erano rispettate. E l’ampia area libera al centro del quadrilatero, riparata dall’esterno, poteva garantire anche una certa protezione ai malati che rimanevano all’aperto durante il decorso della malattia. Il Lazzaretto funziona come ospedale per gli appestati per più di un secolo, fino al 1633. Negli anni successivi diventa caserma, finché, alla fine del XVIII secolo, fiancheggiato ormai dal grande stradone di Loreto, se ne cerca una nuova sistemazione come cimitero o giardino. Passa quindi sotto la giurisdizione della parrocchia di S. Francesca Romana (1787) e in questi anni è parzialmente disabitato; viene quindi utilizzato in parte per le aule della scuola di veterinaria che ha sede nell’antico chiostro degli agostiniani. Nella seconda metà dell’ottocento la scarsa coscienza civica dell’amministrazione pubblica peggiora e porta a compimento l’attacco a questa struttura già perpetrato dal governo austriaco che fece attraversare il recinto dal viadotto ferroviario (che arriva quasi a lambire la Chiesa). E, infatti, a partire dal 1884, consente la demolizione del Lazzaretto per lasciar posto a una delle più vaste operazioni di speculazione edilizia dell’epoca: la costruzione del quartiere del Lazzaretto completato nel 1910.

Del Lazzaretto originario viene conservato un tratto del lato nord, adiacente a un nuovo edificio scolastico, mentre la rimanente parte viene demolita. Della struttura rimangono i bellissimi rilievi di Luca Beltrami, che, inutilmente, si oppose alla sua demolizione, e qualche bella fotografia che ci testimonia l’imponenza di questa struttura.

Il sacello di San Carlo

Il primo carattere distintivo della Chiesa è costituito dalla pianta ottagonale: tale forma si può far risalire al fatto che la forma basilicale, dopo la riforma di San Carlo, non è più rigidamente seguita e tendono a diffondersi organismi con schemi diversi, tra cui quelli a pianta centrale. Tuttavia, per questo edificio, si può supporre che l’architetto abbia scelto uno schema simmetrico perché l’officiante potesse essere visto da tutti i lati del Lazzaretto e in eguale misura, dato che le pareti esterne della chiesa erano inesistenti, limitandosi insieme a una struttura porticata coperta; ma è certo che vi abbia anche voluto imprimere il significato simbolico legato a questa forma, già utilizzata per i primi battisteri cristiani, e “Immagine della perfezione sovrabbondante”. Concordiamo con Don Vincenzo Cavenago quando aggiunge che “l’impianto ottagonale della chiesa al centro di quello quadrangolare del Lazzaretto potrebbe essere quindi un invito a considerare la vittoria di Cristo sulla morte come segno sicuro di redenzione per tutte le sofferenze dell’uomo”. Ma, pur nel rigore e nella apparente semplicità di questo impianto, l’architetto riesce a realizzare un complesso fortemente unitario che, se non ha la maestosità di un tempio, presenta delle proporzioni eleganti, un attento uso di materiali pregiati e utilizza anche degli stratagemmi prospettici che accentuano la visibilità dell’officiante da lontano, riuscendo a darci un concreto esempio della “perfezione” tutta rinascimentale di un organismo a pianta centrale.

Le vicende edilizie

Pellegrino Pellegrini (detto anche, dal nome del padre, il Tibaldi), l’autore del progetto di San Carlo alle Lazzaretto, era già alla fine della sua esperienza milanese nel 1580, quando attende alla stesura del progetto. Era diventato, grazie alla protezione di San Carlo, architetto della fabbrica del Duomo nel 1567, dopo un periodo passato a Roma (1547-1550) in cui aveva acquistato un linguaggio rinascimentale di impronta michelangiolesca. Grazie al suo incarico riesce ad operare non solo a Milano ma anche nelle città vicine con edifici di grande rilevanza: a Cannobio, a Novara, Vercelli, a Como, a Saronno, a Lodi, a Gravedona, a Tortona…

A Milano realizza la chiesa di San Fedele, il cortile dei Canonici, la chiesa di San Protaso, il tempio votivo di San Sebastiano (che può essere considerato l’antesignano del sacello di San Carlo) e, naturalmente, attende al progetto del Duomo per cui realizza il disegno del basamento della facciata che sarà utilizzato anche dopo la sua morte. Per la chiesa di San Carlo il progetto segue di poco quello di San Sebastiano (1576) e viene a completare con una struttura architettonica significativa un organismo ospedaliero d’avanguardia come il Lazzaretto. Il Pellegrini non segue direttamente i lavori del sacello, limitandosi a darne i disegni (uno, assai noto, è quello firmato da San Carlo conservato nell’archivio Borromeo all’isola Bella, due sono nella raccolta Bianconi): negli anni seguenti (a partire dal 1585, anno della morte di San Carlo), essendo inviso al consiglio della fabbrica del Duomo e agli architetti rivali, il Pellegrini non è più a Milano e preferisce accettare l’invito di Filippo II di Spagna a decorare, come pittore, l’Escorial; rimane in Spagna fino al 1595 anno in cui rientra a Milano per morirvi l’anno dopo. Alla realizzazione della chiesa di San Carlo attende quindi un altro progettista, l’ing. Francesco Pirovano, che esegue i lavori, probabilmente a partire dal 1585, terminandoli nel 1592. Dei quattrocento e più anni di storia della chiesa vale la pena di menzionare che nel 1795 fu fatto un primo restauro a cura dell’Ospedale Maggiore; nel 1821 i lati della Chiesa, originariamente aperti, risultano murati e infine, nel 1883, la chiesa viene trasformata dall’ing. Luigi Robecchi con un progetto di “restauro” che ottiene il beneplacito della commissione conservatrice dei monumenti cittadina. Su questo progetto di riforma si deve fermare la nostra attenzione: si tratta, infatti, del più importante progetto di modifica della chiesa dopo la chiusura delle pareti. Il progetto del Robecchi non si limita a una sistemazione generale dell’interno della Chiesa (con sottomurazioni, formazione di un vespaio, rifacimento degli intonaci, costruzione del nuovo altare, riparazione del tetto, costruzione di una nuova cupola e di un piccolo campanile), ma prevede anche l’aggiunta di un corpo a nord-est dell’ottagono che non poteva che nuocere all’armonia dell’edificio originario, rompendo la simmetria dell’organismo: tale aggiunta era stata richiesta dalla committenza come abitazione del sacerdote. Il progettista interviene all’esterno anche sulle serliane delle pareti, riducendo l’ampiezza dell’arco e ritagliandovi una modesta lunetta che mal si attaglia alla precedente apertura. Al tiburio viene sovrapposta come completamento stilistico una lanterna che ne ripete i motivi. Si tratta, comunque, di riforme di tipo utilitaristico (e non di restauro), le cui motivazioni vanno fatte risalire al fatto che si ritenne “Che detto edificio dal lato artistico non lo si può riguardare come monumentale e quindi non si possa esigere che non abbiano ad essere modificati il suo carattere, la sua forma e la sua decorazione”. E ciò nonostante ne fosse già conosciuta e apprezzata l’origine, anche se sussisteva qualche incertezza nella attribuzione (il Mongeri, ne “L’arte in Milano”, una delle prime storie artistiche di Milano, pubblicata nel 1872, ne attribuì erroneamente la paternità al Bassi o al Meda, giudicando l’architettura un po’ severamente: “il carattere di essa è quello d’un jonico, ma senza elasticità e senza grazia”. Il progetto finale di riforma è approvato ed eseguito nel corso del 1884: l’aggiunta del piccolo fabbricato, su un terreno comunale, viene a messa con la clausola “fino a quando l’edificio rimarrà chiesa”. I lavori non furono però sufficienti visto che il parroco Mazzoleni ebbe a richiedere successivamente una sopraelevazione dell’ala appena realizzata con la formazione di vere e proprie stanze al posto degli abbaini serviti da una scala di legno. Il progettista è, questa volta, l’ingegnere Carlo Robecchi, figlio del precedente e datato al 1892. La definizione tecnica dell’intervento prevedeva: “riforma e alzamento dei locali che dovranno servire ad abitazione del sacerdote che ufficia nella chiesa di San Carlino detta la rotonda nel Lazzaretto ed aggregata a detta chiesa”. Il progetto, realizzato solo in parte, muovendo da criteri squisitamente funzionali, prevedeva la sopraelevazione del corpo aggiunto, mascherando, all’esterno, il nuovo piano con un alto parapetto decorato con motivi eclettici: tali opere furono eseguite solo parzialmente, nonostante il parere contrario della citata commissione, limitatamente alla creazione di un secondo piano con la parziale soprelevazione della copertura.

Esternamente fu poi rifatto solamente l’intonaco (1938) e, come ultimo intervento, il manto di copertura (1984). Più interessanti e significative le modifiche subite dalla Chiesa all’interno prima di quest’ultimo recente restauro: non v’era più traccia degli originali gradini posti in corrispondenza dei pilastri che assieme alla strombatura degli archi, introducevano prospetticamente alla visione da lontano dell’altare. All’originario altare centrale furono progressivamente sostituiti un altare maggiore posto tra due della cupola e quindi degli altari laterali. Del 1895 è l’altare della Madonna di Pompei, del 1914 quello di San Giuseppe, del 1910 sono gli stucchi dorati che tanto contrastano con l’originaria sobrietà della volta a spicchi, del 1921 è il rifacimento della pavimentazione, la cui ultima versione “alla palladiana” è del 1938 (mosaicista A. Menegon). Del 1946 è l’inaugurazione dell’altare maggiore, cui segue dopo pochi anni la sostituzione della balaustra in legno con una in marmo. Ancora più recenti (1956) I mosaici negli altari laterali.

Il degrado pre restauro del 2015-2017

Tra gli edifici monumentali esistenti all’esterno delle mura spagnole, pochi dei quali attualmente ben conservati, San Carlo al Lazzaretto – chiamato anche in modo affettuoso San Carlino – si qualificava come uno dei più interessanti e, nello stesso tempo, in peggiori condizioni. Lo denotavano lo stato di degrado degli intonaci (un “Terranova” tanto resistente agli agenti atmosferici quanto inadatto per un monumento cinquecentesco), l’annerimento delle pietre naturali delle colonne, delle paraste e dei capitelli jonici, il degrado e la cattiva conservazione dei serramenti e di parti poco raggiungibili come le gronde e le pareti della lanterna. Problematiche le condizioni strutturali, con evidenti all’esterno alcune crepe nella struttura degli archi, rilevabili sia da fessure delle pietre sia dal distacco di parte degli intonaci. Questi difetti strutturali hanno avuto una probabile accentuazione dopo i lavori di scavo nell’adiacente pozzo che dava accesso alla galleria del passante ferroviario. Sicuramente la spinta della struttura lignea della copertura e il peso di questa, nonché la mancanza di una adeguata controventatura, hanno fatto sì che la parte strutturale principale operasse qualche assestamento.

Interventi di risanamento e restauro conservativo (2015-2017)

Il progetto di restauro si appoggia sul progetto precedente degli architetti Claudio Larcher e Rosangela Natale, confermandolo nella quasi totalità, salvo delle piccole modifiche concordate con la Soprintendenza di Milano.

L’intervento di restauro si è mosso su più registri tra loro coordinati:

– il restauro connesso con la nuova destinazione d’uso

– il restauro delle superfici vero e proprio

– il restauro delle parti strutturali.

Il restauro conservativo 2015-2017 a cura di 02Arch Studio e Naos Restauri, dir. Arch. Ettore Bergamasco.

II primo tipo d’intervento riguarda sia l’interno della chiesa sia la canonica. Per quel che riguarda l’aula il progetto prevede l’utilizzo dello spazio dell’attuale chiesa come spazio per la celebrazione, la preghiera e la Parola, ed eventualmente per lo svolgimento di concerti.

Nel progetto si è tenuto conto del sacello voluto da S. Carlo ponendo nel centro l’altare e accentuando la forma ottagonale con la sistemazione delle sedie e soprattutto con l’eliminazione degli altari laterali non più in uso. Si è tenuto conto nella progettazione della devozione popolare mantenendo nell’attuale posizione i quadri della Madonna di Pompei e di S. Giuseppe.

Sull’asse principale della chiesa viene conservato l’altare e il tabernacolo spostandolo a ridosso del muro perimetrale. Questa trasformazione sostanziale dell’interno ricrea uno spazio simile a quello originario, grazie all’aula centrale (già area presbiterale) e all’ambulacro laterale. Rimangono integre alcune parti della chiesa esistente come l’organo (accessibile con una scaletta a chiocciola) e il collegamento con la sagrestia nella parte posteriore destra.

All’interno, viene conservata la pavimentazione “alla palladiana” del 1938, mentre nelle zone degli altari rimossi viene riportata alla quota del pavimento generale la pavimentazione delle pedane degli altari (una palladiana con delle tonalità più gialle), integrandola. Per ottenere un livello di luminosità ben maggiore di quello attuale; vengono aperte altre due nuove lunette vetrate uguali alle quattro già esistenti, in corrispondenza dei tamponamenti dove sono stati rimossi gli altari laterali. Questo permette di avere una ventilazione e illuminazione migliore. Sono stati adeguati gli impianti e la tipologia dei serramenti.

L’ala destinata alla sagrestia e all’abitazione del sacerdote viene ripensata dal punto di vista distributivo per consentirne il migliore utilizzo secondo le attuali esigenze permettendo una certa flessibilità. Tutto il secondo piano del corpo aggiunto è, inoltre, in comunicazione con gli spazi sottotetto che circondano la cupola e permettono di tenere sotto controllo la struttura muraria e quella lignea del tetto nell’eventualità di possibili future manutenzioni.

La nuova distribuzione interna di questa zona non richiede mutamenti all’aspetto esterno, salvo la riapertura di un vano finestra verso largo Bellintani a pianterreno e la riapertura di una finestra nella copertura al secondo piano, in una zona dove tracce nell’intonaco testimoniano che già ce ne fosse una; viene rifatto il tetto e anche gli altri serramenti.

La Madonna di Loreto a Milano e al San Carlino…

Potrebbe apparire strano o inconsueto incontrare la statua della Vergine lauretana nella restituita chiesa di San Carlo al Lazzaretto – chiusa da alcuni anni a causa delle pessime condizioni in cui versava e riaperta nell’ottobre 2017 – ma di fatto uno stretto legame devozionale, storico e topografico collega Milano e San Carlo al culto lauretano, da cui assunse il toponimo il borgo milanese fuori Porta Orientale: el borgh de Lorett.

L’attuale statua di Santa Maria di Loreto in San Carlo al Lazzaretto, copia del simulacro conservato nel Santuario dell’omonima cittadina marchigiana, intagliata in essenza di Cirmolo, laccata e dorata dall’ebanista Duilio Carminati, è stata collocata nella teca ricavata nella colonna di sinistra vicino all’altar maggiore. Misura 85 cm1.

Che Milano sia città legata al culto mariano è cosa nota: la Madunina la protegge dalla sommità della guglia più alta del Duomo, che in epigrafe ne porta dedica: Mariae nascenti; l’usanza di attribuire il secondo o terzo nome Maria ai figli maschi e femmine era già in uso all’epoca dei Visconti (e tuttora mantenuta anche da diverse famiglie milanesi…); in moltissime chiese della città si trova esposto il simulacro di Maria bambina, il cui anniversario, la nascita di Maria2, era – e forse lo è ancora? – molto sentito e festeggiato nella nostra città.

In quella ricorrenza, nel Borgo e dalla chiesa omonima di Santa Maria di Loreto, edificata nel 1609 e terminata nel 1616, prendeva avvio la processione mariana con la statua venerata in portantina (la prima processione è attestata a partire dal 1643). In questo rione divenuto vieppiù popolato e richiedente nuovi ampi spazi di culto, venne edificata nella seconda metà del XVIII secolo la chiesa di Santa Francesca Romana (1782-1787), con il suo altare settecentesco dedicato ad un’altra Madonna nera, la Virgen de Monserrat, cui era devoto Carlo VI d’Asburgo (nonno di Giuseppe II), e la suddetta processione dall’annessa chiesa di Santa Maria di Loreto terminava così nella più grande nuova chiesa di Santa Francesca Romana3.

Nella parte orientale della città si snoda poi il percorso mariano-simbolico più interessante: quello delle tre Marie con l’abbazia di Santa Maria Rossa a Crescenzago, eretta nel X secolo4; l’abbazia di Santa Maria Bianca della Misericordia al Casoretto, denominata “Bianca” dal bellissimo dipinto5 attribuito a un lombardo Pisanello minore (e nella cui Sala Capitolare si possono ammirare tutt’oggi gli affreschi che ritraggono San Carlo e Federico Borromeo); e infine la Madonna nera venerata in quella che fu la chiesa di Santa Maria di Loreto, il cui simulacro originale6 è collocato oggi nella chiesa del SS. Redentore7.

Mentre le due abbazie sono tuttora sedi pastorali aperte ai fedeli, la chiesa della Madonna di Loreto, che sorgeva proprio vicino al Lazzaretto, eretta da Federico Borromeo su progetto del Richini (che per questa chiesa ne elaborò diversi), attuando così, in misura più modesta, le volontà del santo cugino8, venne purtroppo abbattuta nel 1913 e il prezioso simulacro della Vergine lauretana, commissionato nel 1610 da Pietro Spagnolo e intagliato dal famoso artista Virgilio Del Conte9, fu traslato nella vicina e nuova chiesa del SS. Redentore in via Palestrina, eretta nell’anno giubilare del Redentore, il 1900, che associò perciò tale nome a quello della Madonna di Loreto come avrebbe dovuto effettivamente chiamarsi inizialmente questa nuova erigenda chiesa.

Il percorso dei viaggiatori e/o pellegrini che arrivavano a Milano dalla parte orientale della città offriva pertanto queste tre importanti tappe mariane, cominciando con Santa Maria Rossa, poi Santa Maria Bianca e infine una colonnina con in cima la statua della Madonna della Misericordia (posta nel 1608 nell’attuale Piazza Durante e tutt’oggi in loco), dirigeva il viaggiatore e il pellegrino verso l’ultima tappa, quella della Madonna Nera o di Loreto e il suo tragitto si sarebbe così concluso in prossimità della Porta Orientale d’ingresso alla città, l’attuale Porta Venezia.

Il quartiere multietnico di Porta Orientale/Venezia è sempre stato molto popolato e popolare da metà Seicento in poi10. Con le grandi immigrazioni italiane dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi del Novecento, molti tra i più disagiati lasciarono l’Italia e Milano11 alla volta del Sud America, soprattutto verso l’Argentina e il Perù. Con l’esposizione universale del 1906 il sindaco milanese di allora, Ettore Ponti, per consolidare i rapporti internazionali tra i due paesi che avevano accolto la massiccia immigrazione dei nostri concittadini, prese la decisione, assai criticata, di cambiare nome al corso di Loreto che divenne così corso Buenos Ayres, poi Aires, con annessi i piazzali Argentina e Lima.

La statua di Santa Maria di Loreto, la Madonna nera, posta in San Carlino, vuole essere simbolo di continuità e trasversalità storico-culturale, ma soprattutto simbolo di tolleranza e condivisione nella sua stessa manifesta etnicità in un quartiere che ha fatto della multietnicità, accolta e integrata, la sua identità. Nelle Litanie Lauretane la Madonna è invocata anche come Regina della Pace. Nel suo nome e sotto la sua protezione si può operare quella riconciliazione che unisce, fonde e stempera le differenti identità culturali e che nel suo nome, nella preghiera, riacquistano unità e senso…

Note

1    Nell’altra teca dirimpetto è stata collocata una scultura in legno di Sant’Antonio con basamento a rocaille di area Lombarda del XVI secolo. Anch’essa misura 85 cm. Già la dedica sotto la teca ne riportava un culto precedente al Santo.

2       La natività di Maria viene festeggiata l’8 settembre.

3       Nel 1727 il monastero annesso alla chiesa di S Maria di Loreto ricevette un cospicuo lascito dal conte Carlo Giuseppe Cavenago, molto devoto alla Madonna di Loreto. Il volume “Il Lazzaretto. Storia di un quartiere di Milano” Il Lazzaretto. Storia di un quartiere di Milano, di cui in bibliografia, è a cura di Vincenzo Cavenago. Un cognome che è parentela? O solo sensibile corrispondenza?

4       I cui mattoni rossi probabilmente le diedero il nome e, mi piace pensare, lo consolidò forse anche il manto rubino della Vergine alla destra del trono nei bellissimi affreschi absidali del 1382.

5       Il dipinto ritrae il nitore luminoso della Madonna fanciulla rivolta al santo bambino appena partorito che giace sull’erba, come recitano i due cartigli che uniscono la giovane madre al figlio: Ecce Maria genuit nobis Salvatorem.

6       Purtroppo l’originario colore scuro della pelle della statua, emerso dopo l’ultimo restauro del 1991 sotto i vari strati di pittura, non è stato portato in evidenza, preferendo lasciare il colore rosato che lo ricopriva: auspico che possa essere ripristinato quanto prima il colore originale che non solo è storicamente corretto, ma è altrettanto simbolicamente importante.

7       Certamente questo percorso cromatico-alchemico, iniziatico-devozionale, segna le tappe di un culto assai più antico…

8     San Caro Borromeo era molto devoto alla Vergine lauretana presso il cui santuario si era recato in pellegrinaggio quattro volte: nel 1566, nel 1572, nel 1579 e nel 1583 un anno prima della sua morte e avrebbe voluto erigere una chiesa importante su modello di quella marchigiana.

9       L’artista era nato in una famiglia di noti intagliatori che avevano la bottega presso Porta Orientale all’interno delle mura, i quali avevano lavorato per i conventi di San Simpliciano e Santa Maria del Carmine.

10    Sia l’annuale pellegrinaggio mariano settembrino, che partiva dalla chiesa di Santa Maria di Loreto, sia il grande Viale di Pioppi fatto erigere dagli Asburgo per far arrivare trionfalmente le carrozze imperiali in città, avevano contribuito ad animare il corso di Loreto che divenne luogo di attività commerciali e svago. Ancor oggi corso Buenos Aires è la passeggiata commerciale più lunga di tutta Europa.

11     Proprio al Lazzaretto vivevano in quel periodo le famiglie più povere del quartiere di Loreto.

Il nuovo organo a canne

Progetto: Martino Lurani Cernuschi – Realizzazione: Ditta Inzoli Cav. Pacifico & figli di Bonizzi F.lli.

L’idea di offrire a questi ambienti uno strumento più interessante, nasce direttamente dalla sensibilità musicale della Signora Andreina Rocca Bassetti. Grazie a questa intenzione ha iniziato a prendere forma quello che oggi può essere considerato il più innovativo e poliedrico organo del panorama lombardo.

Da questa premessa è stato ideato e progettato uno strumento di base Romantico/Sinfonica con elementi adatti alla musica barocca così come altri adatti alla tradizione dell’organo da teatro. Tale strumento, per come è stato ideato, riesce ad abbracciare fedelmente un repertorio che va da Bach alla musica da intrattenimento del 900′.

Lo strumento ha 31 file complete + 3 parziali, consta di 20 somieri differenti e circa 1800 canne. Di tutte le file, molte sono di nuova costruzione mentre il resto arriva da un meraviglioso organo Norman & Beard” del 1906.

La trasmissione è quasi interamente elettronica con somieri a magnete diretto. Solo i somieri delle basserie e del glockenspiel sono ad azionamento elettropneumatico.

Tutto lo strumento è chiuso in cassa espressiva per gestirne ottimamente l’importante mole sonora. Tre persiane indipendenti vengono gestite da altrettante staffe in consolle. Tali persiane gestiscono il volume di tre sezioni fondamentali dell’organo. Ance prima tastiera (persiana sinistra). Ance seconda tastiera (persiana destra). Sezione canne labiali (persiana centrale).

Vari registri sono ripetuti su entrambi i manuali proprio per avere a disposizione una grande modulabilità.

Inoltre sono presenti 4 tremoli.

Tremolo debole sezione labiale

Tremolo forte sezione labiale (del tipo wurlitzer).

Tremolo sezione ance

Tremolo Vox Humana

Oltre a questo sono presenti tutte le unioni-sub e super ottave.

È stato inserito anche l’accoppiamento melodico III/II e III/I

Le pressioni così come i mantici sono 4 e vanno dai 90 ai 170 mm in colonna d’acqua.

Le tastiere sono 3 anche se tecnicamente sono 2.

a cura di Chiara Gelmetti, 5 dicembre 2017

Cultura rinascimentale nell’isole dell’Egeo settentrionale

Dal 1355 fino alla caduta di Costantinopoli (1453) la famiglia genovese dei Gattilusi governò su diverse isole del nord Egeo; a Samotracia costruirono fortificazioni sia a Khora sia a Paleopolis e una torre sulla foce del fiume Fonias.

In pieno umanesimo, durante i suoi viaggi nel Mediterraneo e in Grecia, Ciriaco D’Ancona[1] disegnò e riportò molti schizzi nei suoi diari giornalieri e tra questi anche quelli del Santuario dei Grandi Dei (Samotracia, 1444).

Dalla fine del Trecento alla prima metà del Quattrocento si apre un periodo di grande rinnovamento e apertura culturale in Italia, in cui fiorì quello che verrà poi chiamato Rinascimento e che contagerà l’Europa tutta. La riscoperta della classicità, volta nuovamente alla Grecia, spinge alla rilettura e alle nuove traduzioni del corpus platonico (tra le quali quelle di Marsilio Ficino), pensiero che per secoli era stato tralasciato a favore di quello aristotelico. L’ideale di bellezza-bontà-giustizia torna ad essere un concetto chiave che permea le principale corti italiane. Il principe espone la sua persona in grazia, misura, buon governo. Si occupa del regno, ma anche di lettere, poesia, musica… e danza. La danza, quale movimento armonico e misurato che si ispira alle movenze celesti, educa e permette di mostrarsi in grazia e armonia, virtù richieste alla nuova “classe dirigente” quattrocentesca.

Con questo programma vogliamo offrirvi alcune tra queste danze di un periodo che condivise uno straordinario spirito di apertura e rinnovamento, di cui anche Samotracia fa parte.

[1] Ciriaco d’Ancona fu il più intraprendente e prolifico ricercatore e studioso di antichità greche e romane del XV secolo, in particolare di epigrafi. La grande accuratezza delle sue annotazioni gli valsero il nome di padre fondatore della moderna archeologia antica.

Από το 1355 μέχρι την πτώση της Κωνσταντινούπολης, το 1453, η γενουατική οικογένεια Γκατιλούζι κυβέρνησε σε πολλά ελληνικά νησιά του βοριοανατολικού Αιγαίου. Στη Σαμοθράκη εκτισαν οχυρώσεις, στις θέσεις Χώρα και Παλαιόπολη και έναν πύργο στην ανατολική οχθη του ποταμού Φονιάς.

Κατά τη διάρκεια του Ανθρωπισμού, ενω ταξίδευε  στις μεσογειακές χώρες και στην Ελλάδα, ο Ciriaco D’Ancona σχεδίασε και μετέφερε πολλά σκίτσα στα ημερολόγια του, συμπεριλαμβανομένων των σχεδίων του ιερου των Μεγάλων Θεών της Παλαιόπολης (Σαμοθράκη 1444).

Από τα τέλη του 14ου αιώνα μέχρι το πρώτο μισό του 15ου εμφανίζεται μια  περίοδος μεγάλης ανανέωσης και πολιτιστικής ανοχής στην Ιταλία, όπου άνθισε αυτό που στη συνέχεια θα ονομαστεί Αναγέννηση και θα επηρεάσει ολόκληρη την Ευρώπη.

Η   ανακάλυψη του κλασικισμού, που οδηγεί και πάλι στην Ελλάδα, προκαλεί την εκ νέου ανάγνωση και τις καινούργιες  μεταφράσεις του πλατωνικού έργου (συμπεριλαμβανομένων εκείνων του Marsilio Ficino), πιστεύοντας ότι για αιώνες το έργο του Πλάτωνα αγνοήθηκε υπέρ του Αριστοτέλη. Το ιδεώδες ομορφιάς-καλοσύνης-δικαιοσύνης είναι και πάλι μια βασική ιδέα που διαπερνά τις ιταλικές αυλές. Ο πρίγκιπας εκθέτει τον εαυτό του στη χάρη, το μέτρο, την καλή κυβέρνηση. Ασχολείται με το βασίλειο, αλλά και με τα  γράμματα,  την ποίηση, τη μουσική … και το χορό. Ο χορός, ένα αρμονικό και μετρημένο κίνημα εμπνευσμένο από τις ουράνιες κινήσεις, εκπαιδεύει και επιτρέπει να δείχνει με χάρη και αρμονία τις αρετές που απαιτούνται για τη νέα κυρίαρχη τάξη του “δέκατου πέμπτου αιώνα”.

Απόψε θα σας παρουσιάσουμε   χορούς απο εκείνη την εποχή στην οποία ‘ανθισε η ευρύτητα του πνεύματος και η αναγέννηση  μέρος της οποίας πρεσβεύει και η Σαμοθράκη.

From 1355 until the fall of Constantinople in 1453, the Genoese family of Gattilusi ruled on several Greek islands of the northeast Aegean; on Samothrace, they built fortifications in Chora and Palaeopolis, and a single tower at the east mouth of Fonias river.

In full humanism, during his travels to the Mediterranean countries and Greece, Cyriac of Ancona[1] (1391-1452) designed and brought many sketches in his daily diaries, including those of the Sanctuary of the Great Gods (Samothrace, 1444).

From the end of the 14th century to the first half of the 15th century, a period of great renewal and cultural openness appears in Italy, where it flourished what will then be called the Renaissance period and which will affect the whole of Europe. The rediscovery of classicism, once again directed to Greece, prompts the re-reading and new translations of the Platonic corpus (including those of Marsilio Ficino), thought for centuries ignored in favor of Aristotle. The ideal of Beauty-Goodness-Justice is back to be a key concept that permeates the main Italian courts. The prince exposes his person in grace, measure, good government. He deals with the kingdom, but also with letters, poetry, music … and dance. Dance, a harmonious and measured movement inspired by celestial movements, educates and allows to show in grace and harmony virtues required for the new “fifteenth-century” ruling class.

Tonight we offer you some of the dances of a period that shared an extraordinary spirit of openness and renewal, which Samothrace is also part of.

Chiara Gelmetti

[1] Cyriac of Ancona was the most enterprising and prolific recorder of Greek and Roman antiquities, particularly inscriptions, in the fifteenth century, and the general accuracy of his records entitles him to be called the founding father of modern classical archeology.

Armonia e danza nel XV

Armonia e unità nella danza del ‘400.

Dal harmonia suave il canto

Che per l’audito passa dentro al cuore

Di gran dolcezza nasce un vivo ardore

Da cui il danzar poi vien che piace tanto

(Guilielmi Hebraei Pisauriensis De pratica seu arte tripudii vulgare opusculum incipit)[1]

 

Da quanto possiamo dedurre dalle fonti antiche, il primo concetto greco di kosmos al quale venne dato un disegno armonico unitario si deve alla scuola pitagorica del VI e V secolo a.C. L’universo appare come un insieme organico, le cui singole parti costituenti esistono in quanto componenti del loro insieme. Il principio originale (arché) che regge il mondo è il numero (arithmòs). I Pitagorici credevano che ogni cosa fosse commensurabile a un termine numerico e tutti gli elementi dell’universo collegati l’uno all’altro in una proporzione numerica, harmonia. Pensavano che gli elementi dei numeri fossero gli elementi di tutte le cose e l’intero universo basato su un’armonia numerica.

Ora, non essendo i princìpi né uguali né della stessa specie, non si sarebbero potuti ordinare in un cosmo, se non si fosse aggiunta l’armonia, in qualunque modo vi si sia aggiunta. Se fossero stati simili e d’egual specie, non avrebbero avuto bisogno dell’armonia: ma gli elementi che sono dissimili e di specie diversa e diversamente ordinati, devono essere conchiusi dall’armonia che li può tenere stretti in un cosmo. (Filolao, framm.B6)

Per i Pitagorici l’intero cosmo è basato sulle relazioni tra i numeri 1,2,3,4. La sacra tetrakis serve da ideogramma per tutta la creazione. E’ attraverso il numero che l’unità, come principio primordiale dell’Essere, si estende nel mondo materiale e diviene molteplicità e il limite del mondo materiale quale entità fisica inerisce ai numeri 1,2,3,4. Essi creano il punto, la linea, il piano/la superficie e il volume/l’area. La somma di 1+2+3+4=10 esaurisce i limiti delle possibilità di estensione fisica. Non ci sono altri numeri successivi al 10 che non siano determinati dalla tetriade e non esiste nulla che non derivi dalla combinazione di questi quattro numeri. [2]

Anche in Agostino (De Musica, libro primo[3]), leggiamo:

i primi tre numeri, di cui hai ammirato il raccordo, nel loro raggruppamento potevano risultare soltanto nel quattro. Esso ha ottenuto pertanto di diritto, come puoi comprendere, di succedere ad essi in maniera da essere legato da un più stretto raccordo con gli stessi. Così la serie dei numeri ha un intimo legame non solo in uno, due, tre, ma in uno, due, tre, quattro.

Dunque la sacra tetrakis e la decina costituiscono i modelli della perfezione, creando unità dalla molteplicità e molteplicità dall’unità. Originandosi dall’illimitato, da un mondo assoluto, quando si calano nella fisicità creano un sistema finito, tuttavia perfetto, l’universo.

Il tempo o la quarta dimensione appaiono quando il numero si manifesta nella realtà fisica. Il tempo cronologico (chronos) procede dall’eternità (aion) come lo spazio finito si genera dall’infinito. L’atto della creazione fissa/sottopone la monade nel/al tempo e nello/allo spazio. Il cosmo è dinamico e il suo movimento costante ordinato secondo uno schema. Tutti i cambiamenti sono fasi di un predeterminato ordine ciclico, si ripetono nel tempo secondo una determinata proporzione.

Si dice che Pitagora insegnasse che i suoni musicali consonanti potessero essere rappresentati come frazioni numeriche. Queste frazioni avevano la stessa proporzione degli orbi celesti e il suono prodotto dalle loro rivoluzioni corrispondevano alle note della scala musicale; l’armonia musicale rinvia dunque all’armonia delle sfere.

Anche l’armonia e l’ordine nei movimenti coreografici sono collegati all’armonia celeste e obbediscono, nella loro struttura ritmica, agli stessi principi numerici.

Uno dei maggiori eredi del sistema pitagorico fu Platone. Il suo concetto del cosmo, descritto nel capitolo finale della Repubblica e nel Timeo, è strettamente modellato secondo il concetto pitagorico di una matematica armonia dell’universo.

E l’armonia, dotata di movimenti affini ai circoli della nostra anima, a chi con intelligenza si serve delle Muse non sembra utile, come si crede ora, a procurare un piacere irragionevole: ma essa è stata data dalle Muse per ordinare e rendere consono con se stesso il circolo della nostra anima che fosse diventato discorde. E il ritmo è stato donato da quelle per questo stesso motivo, vale a dire per ovviare a quella condizione che interessa la maggior parte di noi e che consiste nella mancanza di misura e di grazia. (Timeo, 47d-e)

Tale è la natura degli astri, bellissima alla vista, e che in evoluzioni e danze corali, più belle e più magnifiche di tutti i cori porta a compimento ciò di cui hanno bisogno tutti gli esseri viventi. (Epinomide, 982e)

Il neoplatonismo rinascimentale nacque quando alcuni eruditi greci venuti in Italia per il Concilio di Ferrara (1438-39) e Firenze (1439-42) iniziarono a pubblicare diverse edizioni e traduzioni delle opere di Platone. Uno di questi, Georgios Gemisthos Pletho, che aveva scritto il trattato De platonicae atque aristotelicae philosophiae comparatio (1439), ispirò probabilmente a Cosimo I de’ Medici l’idea di fondare una Accademia platonica a Firenze.

Marsilio Ficino, con le sue traduzioni di Platone, Plotino e gli ermetici, introdusse il pensiero platonico e neoplatonico nella principale corrente filosofica del rinascimento, creando una sintesi originale tra il pensiero platonico e il cristianesimo. Il suo concetto di harmonia è anche, come nella tradizione pitagorica (che evoca ripetutamente nei suoi commenti al Timeo e al Fedro), armonia musicale. E’ un principio metafisico che sta alla base dell’ordine cosmico che si radica nel numero.[4] Ed è un concetto chiave che influenzerà profondamente l’estetica del rinascimento; inoltre il neoplatonismo reintroduce il concetto di bellezza: ciò che è buono è anche bello. La musica insieme alla danza, che ha origini mistiche e divine,[5] raggiunge un alto statuto tra le arti liberali, riunificandole in sé, armonia e bellezza sono i suoi fondamenti: l’arte del danzare è armonia interiore che diletta l’animo e dà piacere a chi la guarda;

Come ben noto tra il XV e XVI secolo vi fu un periodo di intensa attività scientifica e filosofica attorno all’indagine dell’universo. Copernico, Keplero e Galileo sono strettamente collegati alla rivoluzione del pensiero astronomico che condusse alla sostituzione della concezione tolemaica dell’universo e reintrodusse il concetto fondamentale di unione e armonia del cosmo.

Nel proemio del libro primo del De Revolutionibus (1543) di Copernico, espunto da Osiander e ritrovato solo a metà ottocento, leggiamo:

[…]Fra i molti e diversi studi delle lettere e delle arti con cui si irrobustiscono gli ingegni umani, stimo si debbano soprattutto intraprendere e portare avanti con sommo zelo quelli che concernono le cose più belle e più degne di essere conosciute. Tali sono gli studi che con serietà considerano le divine rivoluzioni del mondo e il corso dei pianeti, le loro grandezze e distanze, il loro sorgere e tramontare e le cause delle altre apparenze celesti, e, infine, spiegano tutta la sua bellezza. E cosa è mai più bello del cielo, giacché contiene sicuramente tutte le cose belle? Lo dichiarano i nomi stessi di Cielo e Mondo, questo appellativo di purezza e di ornamento, quello, di autentico cesello. Proprio per la sua straordinaria eccellenza la gran parte dei filosofi  l’ha chiamato Dio visibile. Pertanto, se si valuta la dignità delle arti a seconda dell’oggetto di cuitrattano, questa, che alcuni chiamano astronomia, altri astrologia, ma molti antichi la perfezione delle matematiche, sarà di gran lunga la più insigne. Essa invero, vertice delle arti liberali, la più degna di un uomo libero, poggia su quasi tutte le specie della matematica.

Artmetica, geometria, ottica, geodesia, meccanica e altre ve ne sono, tutte convergono in essa […][6]

E anche Galileo, citando Copernico, nella sua dedica al Gran Duca di Toscana nel suo Dialogo scrive:

[…]e ‘l volgersi al gran libro della natura, che è ‘l proprio oggetto della filosofia, è il modo per alzar gli occhi: nel qual libro, benché tutto quel che si legge, come fattura d’Artefice onnipotente, sia per ciò proporzionatissimo, quello nientedimeno è piú spedito e piú degno, ove maggiore, al nostro vedere, apparisce l’opera e l’artifizio. La costituzione dell’universo, tra i naturali apprensibili, per mio credere, può mettersi nel primo luogo: che se quella, come universal contenente, in grandezza tutt’altri avanza, come regola e mantenimento di tutto debbe anche avanzarli di nobiltà. Però, se a niuno toccò mai in eccesso differenziarsi nell’intelletto sopra gli altri uomini, Tolomeo e ‘l Copernico furon quelli che sí altamente lessero s’affisarono e filosofarono nella mondana costituzione[…[7]]

Come potrebbe allora tale divina danza celeste di creazione riflettersi adeguatamente nei movimenti del corpo umano?

 

Nella prima metà del XV secolo nacque nella corte sforzesca milanese una scuola di danza chiamata Il ballar lombardo, fondata da Domenico da Piacenza (detto anche da Ferrara, poiché è alla corte estense che iniziò la sua professione di maestro di danza) sviluppata poi da Antonio Cornazano e da Guglielmo Ebreo (che dopo la conversione si fece chiamare Giovanni Ambrosio).

Insieme produssero un sistema/modo di danzare che restò quello della danza cortese italiana fino alla fine del XVI secolo. Scrissero tre manuali di danza che non solo contengono il repertorio principale delle coreografie rinascimentali, ma anche un corpus teorico che ha interessanti intrecci con l’estetica e la filosofia del periodo.

Domenico da Piacenza nasce verso la fine del trecento e dunque fa ancora riferimento al pensiero aristotelico e ad una dialettica medievale per sostenere la sua concezione estetico-filosofica dell’arte del danzare, mentre con Guglielmo Ebreo da Pesaro, di pochi anni più vecchio, ci troviamo già di fronte a un orizzonte di idee che, a partire dall’uomo e dalla natura, s’inserisce pienamente nella nuova visione rinascimentale. Guglielmo crede nella razionalità dell’ordine naturale delle cose ed elegge la natura stessa a criterio di verità.[8] Dal pensiero scolastico al naturalismo rinascimentale si delinea la danza del ‘400 in un percorso semanticamente ambiguo che la rende così particolare e rarefatta, soprattutto nella bassadanza, che si trova sempre anche nel più gaio dei balli, ingentilendolo con la sua delicata onda.

Ma tenire el mezo del del tuo movimento che non sia ni tropo ni poco (ma) con tanta suavitade che pari una gondola che da dui rimi spinta sian per quelle undicelle quando el mare fa quieta secgondo sua natura.[9]

Il 1 agosto 1480, maestro di ballo al servizio del casato ducale degli Sforza di Pesaro – sua città natale – fu mandato alla corte di Milano per insegnare la sua arte alle giovani generazioni della famiglia sforzesca reggente in quella città. Era molto comune avere un maestro di danza ebreo durante il rinascimento. Nella lettera di raccomandazione è descritto come il migliore il Italia e si spera che la famiglia ducale di Milano possa approfittare del grande talento di questo maestro: Giovanni Ambrosio. Questo è il nome dato a Guglielmo Ebreo da Pesaro, quando abbracciò la fede dei Padri e fu battezzato, probabilmente nel 1460, per poter ricevere il titolo di cavaliere. [10]

Non abbiamo informazioni esatte sulla sua educazione, ma dato il suo elevato status artistico, dovrebbe aver avuto contatti con i circoli umanistici delle corti presso le quali era stato chiamato e le premesse teoretiche dei suoi manuali di danza sono fortemente influenzate dall’estetica neoplatonica, alle cui fonti deve aver avuto accesso.

Guglielmo inizia il suo trattato citando l’opinione degli Antichi sul mundo della musica e il dolce canto e suave suono dalchuno ben concordato strumento e come la dolcezza e virtù di questa vaga e suavissima scienza hanno al mondo fatto singularissimi effetti et meravigliosi movimenti.

Le sue fonti rivelano come la dolce consonanza della musica provveda a tutti i nostri sensi singular conforto, sommo piacere e aglinfirmi spiriti e alle contristate menti letizia singulare e per questa singularissima efficacia la musica raggiunge lo status più alto nella compagine delle sette arti liberali:

La quale arte intra le sette non e la minore annumerata anzi come scienza liberale se mostra sublime e alta, & da douer seguire come laltre dignissima, et quasi al humana natura più che alchuna dellaltre aptissima & conforme.

Orfeo ci insegna che la dolcezza del suo suave suono e la forza di quella melodia muovono automaticamente le persone a ballare e Guglielmo non ha dubbi sulla grande excellenza & suprema dignitate della scienza [della musica] dalla quale larte giocunda et dolce effetto del danzare [sic] e naturalmente proceduto.

Vogliamo qui citare due danze tardomedievali-rinascimentali: una bassadanza per tre danzatori/trici Venus scritta da Guglielmo per Lorenzo il Magnifico e Giove un ballo a sei (per tre coppie) che questi riprende dal suo maestro Domenico.

La bassadanza, le cui origini si possono rintracciare già nel XIV secolo, ha una suddivisione ritmica in sei tempi (numero più che perfetto, dato dalla somma o moltiplicazione dei primi tre numeri 1,2,3), che ne costituisce la trama. Tessuto nella danza è l’ordito in misura di quattro passi: due passi scempi, cioè semplici, o un passo doppio formato da tre passi e una chiusura. La misura del tempo (6) dato dal ritmo musicale e quella del movimento (4) che il corpo esegue, mantengono la tensione e l’equilibrio della bassadanza: nella compositio dei questi due numeri 6+4 = 10 ritroviamo la traccia della tetrakis pitagorica.

La “terzina” definisce sia il ritmo che il numero dei danzatori, e la figura base (un passo semplice, la misura coreutica più piccola), s’inserisce in essa aderendovi. Analogamente il suo tactus, scandito dal respiro e dal battito del cuore, forma la ritmica corporea interiore, che sostiene, a sua volta, quella esteriore data dal tamburo; tale interscambio percettivo produce una sorta di incantamento: chi è solito ballare una bassadanza sa quanto sia facile farsi sovrastare da questo ritmo “naturale” del fuori-come-dentro e perdervisi (come nello stato meditativo della recitazione di un mantra)[11], e il trattenere, anticipandola nella mente, l’immagine coreutico-narrativa per svolgerla coscientemente e con misura nella danza, è antidoto per evitare l’automatismo della continua singola ripetizione e la dimenticanza della coreografia. La danza, ci dice Guglielmo, è:

Misura, Memoria, Partire di terreno, Aire, Manera Et movimento corporeo Le quale sey parte bisognia partcularemente & perfectamente intendere & nella mente ben racoglie(re)

Bisogna perciò danzare, come dice Domenico, per fantasmata:

Dico a ti che chi del mestiero vole imparare, bisogna danzare per fantasmata e nota che fantasmata è una prestezza corporale, la quale è mossa cum lo intelecto del mesura… facendo requie a cadauno tempo che pari aver veduto lo capo di medusa, como dice el poeta, cioè che facto el moto, sii tutto di pietra in quello istante e in istante metti ale come falcone che per paica mosso sia, secondo la regola disopra, cioè operando mesura, memoria, maniera cum mesura de terreno e aire.[12]

e di nuovo il Cornazano suo discepolo:

Talhor tacere un tempo e star lo morto non e brutto ma entrare poi nel seguente con aeroso modo quasi come persona che susciti da morte a vita..simile a un’ombra phantasmatica nella quale similitudine ad explicarla se intendono molte cose che non si sanno dire.

[1]     B.Sparti, Guglielmo Ebreo of Pesaro- De pratica seu arte tripudii, Clarendon Press, Oxford, ristampa 2003

[2]    Gunter Berghuas, Neoplatonic and Pythagorean notions of world harmony and unity and their influence on renaissance dance theory, Dance Research vol.10,n.2, Edinburgh University Press, 1992

[3]     Giovanni Catapano, Agostino – Tutti i dialoghi, Milano, Bompiani, 2006.

[4] La filosofia neoplatonica del circolo fiorentino del XV e XVI secolo fu diffusa e condivisa anche da altri intellettuali e scrittori. Uno dei più importanti trattati a riguardo è quello di Francesco Giorgio De Harmonia Mundi: [..La diversità di tutta la creazione e le molte parti informi sarebbero rimaste nella dissonanza se  non fossero state convertite, dai legami dell’armonia, in unità. La consonanza si ha solamente quando voci simili e dissimili sono unite in una voce concorde. Di conseguenza la consonanza dei corpi celesti si ha quando cose eguali e diseguali sono portate a coesione in quella prima consonanza (che è Dio) e tutte le cose godono del beneficio di questa unità..] (Venetiis, 1525) fol.Mlv.

[5] Nel Perì Orcheseos di Luciano (160 D.C. circa) troviamo:

La danza apparve contemporaneamente all’origine dell’universo, insieme a Eros. Infatti l’armonia delle sfere celesti, l’allacciarsi dei pianeti erranti alle stelle fisse, il loro accordo ritmico e numerico, sono prove che la danza era primordiale.

[6]     Anna De Pace, Niccolò Copernico e la Fondazione del cosmo eliocentrico, Ed.B.Mondadori, Milano, 2009

[7]     http://it.wikisource.org/wiki/Dialogo_sopra_i_due_massimi_sistemi_del_mondo_tolemaico_e_copernicano, 5/2011

[8]    Alessandro Pontremoli, Estetica dell’ondeggiare ed estetica dell’aeroso: da Domenico a Guglielmo, evoluzione di uno stile coreutico, Guglielmo ebreo da Pesaro e la danza nelle cori italiane del XV secolo, Atti del Convegno Internazionale di Studi Pesaro 16/18 luglio 1987, Pacini Editore, p.160.

[9]     Domenico da Piacenza, De arte saltandi et chorea ducendi, Paris, Bibliotèque Nationale, f.ital.972

[10]  Zvi Friedhaber e G.Manor, The jewish dancing master in the renaissance in Italy, Guglielmo ebreo da Pesaro e la danza nelle cori italiane del XV secolo, Atti del Convegno Internazionale di Studi Pesaro 16/18 luglio 1987, Pacini Editore, p.11

[11]  E non produce forse lo stesso effetto la lettura poetica, per esempio, la terzina dantesca?

[12]  Domenico da Piacenza, De arte saltandi et chorea ducendi, Paris, Bibliotèque Nationale, f. ital.972